La nuova faccia dell’Angola
Nell'ex colonia portoghese stanno cambiando alcune cose – ma non tutte – grazie al nuovo presidente João Lourenço
Nell’agosto del 2017 i cittadini angolani andarono a votare per le elezioni politiche: e per la prima volta dopo 38 anni non trovarono sulla scheda il nome di Jose Eduardo dos Santos, che era stato presidente dell’Angola dal 1979. Al suo posto c’era quello di João Lourenço, 64 anni, ministro della Difesa di dos Santos e politico molto popolare soprattutto per le sue campagne anti-corruzione. Lourenço – membro dello stesso partito di dos Santos, il Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (MPLA) – vinse le elezioni e fu eletto nuovo presidente. Gli spettava un compito difficile: cambiare uno dei paesi più ricchi ma anche più disfunzionali dell’intero continente africano.
Da allora è passato poco più di un anno, un tempo troppo limitato per fare bilanci definitivi, ma qualcosa del lavoro di Lourenço si può già dire.
Lourenço ha cominciato un deciso processo di rinnovamento in alcuni dei settori più strategici dell’economia angolana, e ha avviato in parallelo una specie di campagna anti-corruzione che ha colpito politici e uomini di affari molto importanti. Come ha raccontato l’Economist, Lourenço ha sorpreso molti osservatori licenziando i ricchissimi figli di dos Santos che erano stati messi ai vertici di Sonangol, la compagnia petrolifera statale, e del fondo sovrano angolano. Uno di loro, José Filomeno dos Santos, è stato anche accusato di frode e riciclaggio di denaro.
Lourenço ha iniziato inoltre il complicato processo di diversificazione dell’economia angolana, che oggi si basa per lo più sulle esportazioni di petrolio (che sono circa il 95 per cento di tutte le esportazioni nazionali e che valgono la metà delle entrate statali). Sotto la presidenza di dos Santos, scrive l’Economist, “diversificazione” significava soprattutto promuovere progetti enormi e inefficienti, come per esempio la Zona economica speciale (Zee, la sigla in portoghese) vicino a Luanda, la capitale dell’Angola: la Zee, una zona industriale grande come Manhattan, era diventata il simbolo di tutto ciò che non funzionava nel paese e che aveva bisogno di essere riformato. Lourenço ha avviato politiche diverse: ha presentato un piano di privatizzazione di un centinaio di società, incluse molte legate al colosso Sonangol; ha eliminato una vecchia legge che obbligava gli investitori stranieri ad avere partner angolani per avviare attività nel paese; ha iniziato a riformare il sistema finanziario nazionale, soprattutto nella sua parte legata all’operato delle banche, che agivano in maniera arbitraria e rischiosa; e ha smesso di ancorare la moneta locale, il kwanza, al dollaro, allentando così la pressione sulle riserve di valuta straniera.
Lourenço ha cercato anche di riposizionare l’Angola sulla scena politica internazionale. Mentre dos Santos aveva creato un legame strettissimo con la Cina, così come molti altri leader africani negli ultimi anni, Lourenço ha cercato nuovi partner in Europa, di modo da essere meno dipendente da un solo paese. Ha anche migliorato le sue relazioni con il Fondo Monetario Internazionale, introducendo alcune riforme richieste dall’organizzazione per poter ricevere i primi prestiti internazionali.
Nonostante le molte novità nei settori dell’economia, della finanza e della politica estera, Lourenço ha mostrato finora di non voler introdurre riforme politiche per concedere maggiori libertà e maggiore spazio ai partiti di opposizione. Uno dei problemi più grandi dell’Angola, oltre all’inefficienza del suo apparato pubblico e all’estesissima corruzione, è infatti che al governo c’è sempre stato lo stesso partito: l’MPLA, cioè la forza politica a cui appartiene anche Lourenço. L’MPLA controlla tutta la macchina burocratica statale, la polizia, i media e molti funzionari governativi. I suoi membri sono stati quasi gli unici ad arricchirsi negli anni successivi alla fine della guerra civile, nel 2002, quando in poco più di un decennio il PIL angolano crebbe del 10 per cento l’anno, senza però portare significativi miglioramenti agli standard di vita della popolazione.
Lourenço, scrive l’Economist, non sembra volere essere un riformatore politico: si è rifiutato di modificare la Costituzione per limitare i suoi poteri, ha mostrato scarso interesse nel rendere indipendenti i tribunali nazionali e ha messo uomini a lui fedeli nelle posizioni chiave dell’esercito e dei servizi segreti.
Lo scorso anno lui stesso si è paragonato a Deng Xiaoping, il presidente cinese che negli anni Ottanta introdusse le riforme economiche nella Cina comunista. Anche Deng, come Lourenço, si rifiutò di introdurre riforme politiche per cambiare il sistema, e anzi usò le riforme per garantire la sopravvivenza delle strutture esistenti. «Deng era uno che vedeva le riforme come un mezzo per raggiungere un obiettivo: un modo per tenere il suo partito al potere», ha scritto l’Economist: ovvero una cosa simile a quella che sta provando a fare Lourenço in Angola.