Le protesi mammarie e una rara forma di tumore
Ci sono nuove preoccupazioni sul presunto legame tra un linfoma e le protesi impiantate in milioni di donne in tutto il mondo
Un tipo di protesi al seno molto comune, e utilizzato da milioni di donne in tutto il mondo, è al centro di nuovi e consistenti sospetti circa la sua capacità di aumentare sensibilmente il rischio di sviluppare un tumore. Il problema era già stato sollevato in passato, ma nelle ultime settimane è tornato nuovamente di attualità in seguito a nuove indagini condotte in Francia e ad alcune inchieste giornalistiche, come quella da poco pubblicata dal Guardian. Molti chirurghi hanno già deciso di sospendere l’utilizzo delle protesi in attesa di ricerche più approfondite, che però potrebbero richiedere anni prima di essere completate, data la grande quantità di operazioni per la ricostruzione del seno svolte in tutto il mondo.
L’aumento del rischio per i tumori riguarda le protesi ruvide (“testurizzate”), quelle più utilizzate nella maggior parte del mondo per la ricostruzione del seno. La loro superficie è ruvida e poco omogenea: molti chirurghi ritengono che diano un risultato più naturale e minori complicazioni, per esempio in termini di spostamento della protesi all’interno della mammella, riducendo il rischio di dover ricorrere a nuove interventi correttivi e invasivi. Il problema è che ormai da tempo si sospetta ci sia una correlazione tra protesi ruvide e il linfoma anaplastico a grandi cellule (ALCL), una rara forma di linfoma che interessa i linfociti T, un tipo di cellule del sistema immunitario.
Durante gli interventi di ricostruzione del seno – di solito condotti per motivi estetici su pazienti che sono state operate per la rimozione di un tumore o per aumentare la dimensione – le protesi vengono inserite in corrispondenza dei muscoli pettorali, al di sotto della mammella, in modo da renderla più gonfia. L’organismo riconosce la protesi come un corpo estraneo e attiva il sistema immunitario, che cerca di contrastarla con un’infiammazione dei tessuti che la circondano. Il processo porta alla formazione di una cicatrice interna, uno strato di tessuto fibroso e compatto, che circonda l’intera protesi. In rari casi, nello spazio tra la cicatrice e la protesi si sviluppa una forma di ALCL nota come BIA-ALCL (BIA è l’acronimo di “breast implant associated”, letteralmente “legato all’impianto mammario”).
Le cellule tumorali si accumulano nei fluidi tra la protesi e la cicatrice, ma in alcuni casi possono spostarsi in altre parti del corpo portando a un linfoma diffuso e potenzialmente pericoloso. Di solito i primi sintomi sono un gonfiore anomalo della mammella e un dolore sordo, che diventa acuto quando si fanno particolari movimenti o si assumono posizioni che comprimono la parte.
La rimozione delle protesi e la pulizia dell’intercapedine tra l’impianto e la cicatrice consentono di risolvere il problema, offrendo una piena guarigione. Il problema è che non sempre questa condizione viene diagnosticata tempestivamente, cosa che fa aumentare il rischio di sviluppare un tumore più diffuso e la necessità di trattamenti più pesanti, come la chemioterapia.
A oggi non esiste un registro affidabile per dire quanto sia esteso il problema delle protesi ruvide e quantificare i fattori di rischio. Secondo le ultime indagini, basate sui riscontri diretti forniti dai chirurghi, ci sono stati in tutto il mondo almeno 615 casi di BIA-ALCL, 16 dei quali hanno causato la morte delle pazienti.
In Francia, l’Agence national de sécurité du médicament et des produits de santé (ANSM), l’ente governativo che si occupa di sicurezza dei farmaci e dei prodotti sanitari, ha invitato i chirurghi a utilizzare di preferenza le protesi lisce, in attesa di avere nuovi elementi su quelle ruvide. Si stima che in Francia l’85 per cento delle nuove protesi impiegate sia di tipo ruvido. Il prossimo febbraio, l’ANSM organizzerà un incontro con diversi esperti e con le pazienti, in modo da definire nuove regole per l’impiego delle protesi. Le decisioni assunte in Francia potrebbero riflettersi in numerosi altri paesi.
Nel Regno Unito, scrive il Guardian, i casi confermati di linfoma legato a nuove protesi al seno sono stati 45, con la morte di almeno un paziente. Il dato è per ora approssimativo, così come lo è la stima secondo cui il rischio di sviluppare un BIA-ALCL sarebbe pari a 1 ogni 24mila pazienti. Negli Stati Uniti, dove l’impiego delle protesi ruvide è molto diffuso, si stima che ci siano stati almeno un migliaio di casi e che ce ne siano altre migliaia non diagnosticati.
Studiare le conseguenze di un trattamento chirurgico su una scala così grande non è semplice, ma in molti criticano la lentezza con cui il problema è stato affrontato dalle autorità sanitarie. I primi sospetti sulle protesi ruvide furono sollevati circa 20 anni fa, quando nel Regno Unito fu prospettata la possibilità di un legame tra una particolare forma di linfoma e le operazioni di ricostruzione del seno.
Nel 2011 la Food and Drug Administration (FDA), l’ente governativo che negli Stati Uniti si occupa di sicurezza alimentare e dei farmaci, segnalò un aumento anomalo di casi di ALCL nelle pazienti con protesi mammarie. Due anni dopo, un primo censimento portò all’identificazione di almeno 130 casi nel mondo, con un incremento negli anni successivi, fino ai 359 rilevati nel 2017 da diverse ricerche scientifiche. Un anno fa, lo Scientific Committee on Health Environmental and Emerging Risks (SCHEER) dell’Unione Europea ha invitato la comunità scientifica a studiare più approfonditamente il rapporto tra protesi mammarie e ALCL.
I ministeri della Salute dell’Unione Europea, compreso quello italiano, da qualche anno collaborano per monitorare la situazione e mantenere registri più affidabili sui nuovi casi di ALCL. Il ministero della Salute italiano ha rilevato un aumento significativo dei nuovi casi dal 2015, anno in cui è stata diffusa una circolare che invitava proprio il personale sanitario a notificare con più accuratezza le diagnosi. Fino alla scorsa primavera, in Italia sono stati riscontrati 30 casi di BIA-ALCL. Una prima indagine statistica sui dati in possesso del ministero colloca l’incidenza della malattia in 2,8 casi su 100mila pazienti a rischio nel 2015. I sintomi possono manifestarsi tra 1 e 22 anni dal momento dell’operazione, con un tempo medio intorno ai 6,8 anni.
In Italia ogni anno vengono impiantare circa 49mila protesi mammarie, quindi il numero di casi di BIA-ALCL dovrebbe continuare a essere esiguo, dice il ministero. Il dato potrebbe però cambiare in futuro, man mano che si allungheranno i tempi di follow-up delle pazienti sottoposte a operazioni per nuovi impianti.
Il numero di casi di BIA-ALCL continua a essere estremamente basso, così come lo è la sua incidenza, ma questo naturalmente non significa che si debba smettere di fare ricerca sul tema. L’incidenza ridotta rende più difficile l’identificazione di una netta correlazione tra protesi ruvide e lo sviluppo di quel tipo di linfoma.
Molte pazienti, che hanno raccontato le loro storie al Guardian, lamentano il fatto di non essere state informate adeguatamente prima di sottoporsi all’operazione. Dicono di non avere ricevuto sufficienti informazioni circa i rischi, nonostante ci fossero sospetti sulle protesi ruvide da quasi 20 anni, per quanto per un numero molto limitato di casi di ALCL. Le protesi lisce e le tecniche per eseguire le operazioni si sono inoltre evolute, rendendo più affidabili le soluzioni alternative alle protesi ruvide, eppure queste ultime continuano ad avere una maggiore diffusione.
Allergan, uno dei principali produttori di protesi per il seno, ha detto di essere “pienamente impegnata” nello studio del problema, in modo da comprendere meglio i fattori di rischio e dare informazioni più complete alle future pazienti. L’azienda farmaceutica sta inoltre sperimentando nuovi materiali e soluzioni, che potrebbero migliorare le cose. La ricerca richiede però tempo e denaro e non porterà a grandi cambiamenti nel futuro prossimo. Mentor, altro grande produttore di protesi, ha spiegato che quelle ruvide offrono molti vantaggi a cominciare da una maggiore stabilità degli impianti, riducendo il rischio che le protesi si spostino rendendo necessari nuovi interventi, piuttosto invasivi. Il rischio di inconvenienti di questo tipo è molto più alto rispetto a quello di ammalarsi di BIA-ALCL, per lo meno sulla base dei dati a disposizione finora.