In Lettonia smetteranno di insegnare il russo nelle scuole
Una nuova conseguenza del nervosismo dei paesi baltici per l'aggressività russa oppure una nuova campagna discriminatoria contro i russofoni in Europa, secondo i punti di vista
Dallo scorso settembre in Lettonia è in vigore una riforma che prevede la riduzione graduale dell’insegnamento della lingua russa nelle scuole. In Lettonia, che è stata fino al 1991 parte dell’Unione Sovietica, circa il 30 per cento della popolazione è di etnia russa e parla quotidianamente il russo. Nonostante una fetta così ampia di popolazione non parli il lettone, la lingua russa non è mai stata riconosciuta come seconda lingua ufficiale e dal 2004 non ci sono più state nel paese scuole dove si insegnasse esclusivamente il russo.
Da quell’anno nelle scuole riservate alla minoranza russa è stato adottato un sistema bilingue in cui si arrivava gradualmente agli ultimi anni delle scuole superiori a studiare un 60 per cento di lettone e un 40 per cento di russo. Con la nuova riforma, approvata dal governo uscente, durante quelle che sono per noi le scuole elementari, metà delle lezioni saranno in russo e metà in lettone, e negli anni successivi la percentuale a favore della lingua lettone salirà fino a diventare, a partire dal 2021, l’unica lingua consentita negli ultimi tre anni delle scuole superiori.
La questione del bilinguismo in Lettonia
Il bilinguismo è stato un tema centrale per la Lettonia fin dalla sua indipendenza. Un turista in visita nella capitale Riga ha le stesse possibilità di sentire gli abitanti parlare in russo o in lettone, e negli anni la questione linguistica ha causato scontri e tensioni diplomatiche tra la Lettonia, che fa parte dell’Unione Europea e della NATO, e la Russia, con cui confina per 276 chilometri, e che ha pessimi rapporti con l’Unione Europea e la NATO. Le preoccupazioni per la vicinanza con la Russia hanno fatto sì che fino al 2013 potesse ottenere la cittadinanza lettone solo chi vi era nato prima dell’annessione all’Unione Sovietica e i loro discendenti, e che tutti gli altri dovessero sostenere un esame di lingua lettone.
Centinaia di migliaia di persone russofone si sono trovate in una sorta di limbo giuridico: le chiamano nepilsoņi (“non cittadini”), cioè persone che non sono tecnicamente apolidi per la legge lettone, ma che non hanno né cittadinanza né diritto di voto. Dal 2013 la situazione è parzialmente cambiata, e ora i figli dei nepilsoņi possono ottenere la cittadinanza se uno dei due genitori ne fa richiesta al momento della nascita.
Nel 2012 la questione della lingua è stata anche al centro di un referendum in cui era stata consultata la popolazione sulla possibilità di far diventare il russo la seconda lingua ufficiale del paese. Il referendum, voluto dal movimento russofono Dzimtā Valoda (Lingua Madre), fu un fallimento: il 75 per cento degli elettori votò contro la proposta.
Cosa c’entra la Russia
La decisione di approvare questa riforma dell’istruzione da parte del governo uscente – guidato da una coalizione composta dall’Unione dei Verdi e dei Contadini e dai partiti Unità e Alleanza Nazionale – è stata presa con l’intento di diminuire il gap linguistico tra le due componenti etniche maggiori del paese, ma secondo i critici sarebbe un attacco ai diritti fondamentali della popolazione russofona. Per Karlis Sadurskis, ministro dell’Istruzione lettone, l’obiettivo della legge è unificare il paese: «Se i nostri figli non imparano insieme, è difficile immaginare che i nostri cittadini si integrino, che seguano gli stessi valori, festeggino le stesse feste e che abbiano la stessa idea di paese».
Gli abitanti di lingua russa invece si sono opposti alla riforma: pensano sia discriminatoria nei loro confronti, visto che l’insegnamento di altre lingue dell’Unione Europea può continuare regolarmente. «Il russo, di fatto, non è una lingua straniera in Lettonia, è stata usata per anni», ha detto a NPR Degi Karayev, un attivista che ha organizzato una protesta contro la nuova legge. «Il problema con la riforma dell’istruzione è che spazza via completamente la lingua russa dalla nostra società». A marzo, prima dell’approvazione definitiva della legge, il ministero degli Esteri russo aveva definito la riforma «odiosa»; un mese dopo la Duma, la camera bassa del parlamento russo, aveva pubblicato un comunicato minacciando sanzioni economiche nei confronti della Lettonia come ritorsione.
Le tensioni tra Lettonia e Russia sono tra le cause che hanno portato a questa riforma: e c’entra probabilmente anche il ricordo di quello che è accaduto quattro anni fa in Crimea, dove l’invasione e l’annessione russa, in barba al diritto internazionale, fu giustificata dalla presenza di una maggioranza di popolazione russofona. Da tempo la Lettonia, come le altre due repubbliche baltiche Lituania ed Estonia, si considera il più probabile obiettivo della Russia, nel caso in cui questa decidesse di annettere a sé altri pezzi dell’ex Unione Sovietica. E sono proprio le preoccupazioni per l’aggressività della Russia e per la possibilità che la minoranza russa possa chiedere l’indipendenza, unite a una più generale crisi economica, che hanno portato il paese a perdere un quinto della sua popolazione da quando è entrato nell’Unione Europea. Nel frattempo alle ultime elezioni il Partito Socialdemocratico “Armonia” (Saskaņa), di orientamento filorusso, si è risultato di nuovo il primo partito del paese – a conferma del peso politico e sociale che gli abitanti russofoni hanno in Lettonia – ma per il momento è stato ancora tenuto fuori da tutte le possibili coalizioni di governo.