L’unica mostra su Banksy in un museo è a Milano
Si terrà al Mudec fino ad aprile e analizza lo stile, la tecnica e il contenuto in 80 lavori del più famoso street artist al mondo
Al museo Mudec di Milano è in corso, fino al 14 aprile, “A visual protest. The Art of Banksy“, la prima retrospettiva in un museo pubblico dedicata allo street artist britannico Banksy, oltre a quella che curò lui stesso nel museo di Bristol nel 2009. La mostra – che non è stata autorizzata dall’artista – raccoglie circa 80 opere, tra stampe numerate (cioè edizioni limitate realizzate da Banksy) e dipinti, 60 copertine di dischi e vinili e una quarantina di oggetti vari, come adesivi, litografie e magazine, accompagnati da fotografie e video che raccontano i temi, lo stile e la crescita artistica di Banksy.
L’esposizione è curata da Gianni Mercurio, che ha cercato di trattare l’argomento in modo «accademico e un po’ freddo – ha spiegato – e di fornire una lettura scientifica abbondando in informazioni: le sue opere sono caratterizzate dall’immediatezza ma spesso hanno un background britannico con significati che a noi sfuggono». L’idea è di spiegare lo stile artistico di Banksy, al di là della facile popolarità che, unita al suo anonimato, lo ha reso lo street artist più famoso al mondo. Anche se Banksy è famoso dagli anni Novanta, la sua vera identità non è stata mai scoperta e di lui si sa ben poco: che è probabilmente maschio e nato tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, a Bristol. Negli anni sono stati fatti molti tentativi per capire chi fosse, ma per ora nessuno è stato definitivo.
La mostra è un percorso tematico che inizia con gli artisti che hanno ispirato Banksy, come gli studenti-tipografi del ’68 francese, i writers newyorkesi degli anni Settanta e i Situazionisti degli anni Cinquanta, influenzati dalle ideologie marxiste e dalle avanguardie novecentesche. Prosegue poi con le sue opere sulla ribellione: contro il sistema, le multinazionali, il mondo borghese e quello dell’arte, gli stati più potenti e in generale qualsiasi forma di autorità e potere. Poi ci sono i lavori contro la guerra, quelli contro il consumismo e quelli infine dedicati ai ratti, che sono centrali nel suo immaginario: «Esistono senza permesso – ha spiegato – Sono odiati, braccati e perseguitati. Vivono in una tranquilla disperazione nella sporcizia. Eppure sono in grado di mettere in ginocchio l’intera civiltà». Come si intuisce, simboleggiano Banksy stesso e gli altri writers.
Le opere, indipendentemente dai temi, sono accomunate dallo stesso stile, immediato e riconoscibile, che poggia sulla rapidità di esecuzione, sulla serialità dello stencil e sul détournement, che consiste nel riproporre un’opera celebre con qualche tipo di aggiunta o modifica che ne stravolge il significato. Come fa per esempio Can’t beat the feelin’, modellato sulla famosa foto scattata da Nick Ut che raffigura Kim Phuc, una bambina vietnamita che scappa nuda dopo un bombardamento al napalm nel 1972. Nella versione di Banksy, un disegno della bambina è circondato da Topolino e da Ronald McDonald, una palese critica al consumismo e alla cultura Occidentale.
La mostra raccoglie anche 60 copertine di vinili e cd disegnate da Banksy per artisti come i Durty Funker, Blak Twang, i Blur e uno parodico di Paris Hilton. È conclusa da due video: uno che racconta quel che si sa di Banksy, tra le strade in cui è cresciuto e ha lavorato e nelle gallerie e case d’aste in cui sono state vendute le sue opere; è stato realizzato da Butterfly Art News, un sito che documenta il lavoro degli street artist, e che segue Banksy dal 1999. L’altro mostra tutti i 72 murales che ha realizzato in giro per il mondo: perlopiù in Regno Unito, ma anche in Australia (due, a Melbourne), in Africa (due, a Timbuktu) e in Italia (uno, a Napoli).