L’Interpol sta diventando un problema
Da tempo si parla di come i regimi autoritari manipolino l'organizzazione: ora si sta scegliendo il nuovo presidente e probabilmente sarà un funzionario del governo russo
In questi giorni è in corso a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, l’87esima assemblea generale dell’Interpol, l’Organizzazione internazionale della polizia criminale. All’incontro stanno partecipando più di mille delegati provenienti da 195 paesi, tra cui 40 ministri e 85 capi di polizia. La questione più importante di cui si sta discutendo è la nomina del nuovo presidente, cioè colui che sostituirà il cinese Meng Hongwei, arrestato lo scorso settembre dalle autorità cinesi durante un viaggio da Lione, in Francia, in Cina. Meng era sparito per diversi giorni fino a che, il 7 ottobre, dalla Cina era arrivata la notizia che era stato arrestato per corruzione: lo stesso giorno l’Interpol aveva detto di aver ricevuto le sue dimissioni con effetto immediato.
Le circostanze che hanno portato all’arresto di Meng erano sembrate fin da subito molto sospette e avevano fatto parlare di nuovo della mancanza di trasparenza nell’Interpol e del ruolo predominante che i regimi autoritari hanno all’interno dell’organizzazione.
Un “clima di paura”
L’Interpol, che ha sede a Lione, in Francia, è nata nel 1923 con l’obiettivo di far collaborare le polizie dei vari stati membri per localizzare e arrestare criminali, o presunti tali, in giro per il mondo. Bisogna specificare che non è l’Interpol a emanare mandati di arresto internazionale ma le polizie degli stati membri e, in alcuni casi, l’ONU o un tribunale internazionale, che segnalano all’Interpol un individuo condannato o sospettato di avere compiuto un crimine. Lo strumento più noto usato dall’Interpol è la cosiddetta “red notice”, cioè la richiesta di localizzare, arrestare ed estradare un criminale o sospetto tale, a cui si aggiungono altre sette “notice”, ciascuna associata a una particolare richiesta. Oltre a queste c’è la cosiddetta “diffusion”, che è meno formale della “notice”, ma che richiede comunque l’arresto o la localizzazione di una persona soggetta a un’indagine della polizia.
Proprio “red alert” e “diffusion” sono diventate negli ultimi anni tra gli strumenti più utilizzati dai regimi autoritari per perseguire individui a fini politici. Per dare un’idea dell’espansione del fenomeno basti pensare che le prime sono passate da 1.378 nel 2003 a 13.048 nel 2017, mentre le seconde solo dal 2016 al 2017 sono quasi raddoppiate, passando da 26.645 a 50.530. Jago Russell, che è capo di Fair Trials International, un gruppo con sede a Londra che si occupa della difesa dei diritti umani, sostiene che questi strumenti abbiano permesso ad alcuni governi di creare “un clima di paura”, impedendo a dissidenti e attivisti politici di sentirsi al sicuro all’estero.
A preoccupare è soprattutto il sistema dei reclami per contestare le varie “notice“. A occuparsene infatti è la Commissione per il controllo dei dati, un organo che dovrebbe essere teoricamente imparziale ma che, come racconta il Financial Times, sembra tutt’altro che indipendente e trasparente. Ne fanno parte infatti i rappresentanti di cinque soli paesi – Russia, Angola, Moldavia, Argentina e Finlandia – e i reclami possono essere fatti solo via posta cartacea.
Le interferenze politiche nell’Interpol
Lo scorso aprile l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, organizzazione nata nel 1949 che non ha niente a che fare con l’UE, ha lodato l’Interpol per alcune sue riforme, ma l’ha anche accusata di essere utilizzata da alcuni stati “per perseguire obiettivi politici”. Critiche simili sono state fatte negli Stati Uniti, in particolare rivolte verso la Russia, che tra le altre cose è uno dei paesi membri della Commissione per il controllo dei dati. Louise Shelley, docente alla George Mason University, in Virginia, ed esperta di diritto internazionale e crimine transnazionale, ha detto al Financial Times: «Le persone che lavorano nell’Interpol si rendono conto che [l’Interpol] sta diventando un’organizzazione sempre più politicizzata. Tutto è iniziato con gli stati autoritari più piccoli, ma ora riguarda anche alcuni dei più potenti stati al mondo, che ne stanno abusando sempre di più».
Un caso che mostra bene questo potere dei regimi autoritari è quello di Bill Browder, un finanziere che negli Stati Uniti guidò una campagna molto dura contro il regime russo e il cui lavoro portò nel 2012 all’approvazione al Congresso statunitense di una legge chiamata Magnitsky Act, volta a limitare l’ingresso negli Stati Uniti dei cittadini russi accusati di violazione dei diritti umani, e rendere pubblici i loro nomi.
Nel maggio del 2018, mentre si trovava in Spagna, Browder fu prelevato dalla sua stanza d’albergo da due poliziotti che stavano applicando un mandato d’arresto internazionale nei suoi confronti emanato dalla Russia. Browder, si leggeva nel mandato, era accusato di avere finanziato la campagna elettorale di Hillary Clinton alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 2016 con soldi ottenuti in Russia senza pagare le tasse. Browder fu liberato poche ore dopo, ma non era la prima volta che la Russia tentava di arrestarlo usando l’Interpol. Browder teme ancora oggi che la storia possa ripetersi: «Se c’è un caso che mostra come l’Interpol non funzioni è il mio. L’Interpol non è soggetta a nessuna giurisdizione, è totalmente immune a qualsiasi contestazione».
Cosa potrebbe cambiare nell’Interpol
Quello di Browder è uno dei molti casi che negli ultimi anni hanno fatto dubitare dell’imparzialità dell’Interpol. Prima di lui era toccato a Dogan Akhanli, uno scrittore tedesco nato in Turchia che aveva criticato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan: Akhanli era stato arrestato in Spagna in seguito a una richiesta fatta all’Interpol da parte del governo turco. Prima ancora c’era stato il caso che aveva coinvolto Nikita Kulachenkov, considerato vicino a Alexei Navalny, l’oppositore più conosciuto del presidente russo Vladimir Putin, arrestato a Cipro nel 2016 per un furto da 1 euro e 40 centesimi.
Secondo Jürgen Stock, che è segretario generale dell’Interpol dal 2014, l’organizzazione non ha alcun problema di interferenze politiche e ha sempre operato «in buona fede e con regole chiare». Stock ha comunque assicurato che l’organizzazione sta lavorando per migliorare il suo servizio, promettendo per esempio di intensificare il lavoro della Commissione per il controllo dei dati con l’istituzione di una task force con il compito di controllare se una richiesta di arresto sia dettata da motivi politici o meno. Nonostante tutte queste promesse, restano ancora molte preoccupazioni sul futuro dell’organizzazione, a partire dalla scelta del successore di Meng, che verrà annunciato il 21 novembre al termine dei lavori dell’assemblea generale.
Il timore maggiore è che venga eletto come nuovo presidente Alexander Prokopchu, attuale vicepresidente e funzionario del ministero dell’Interno russo. L’incarico di presidente è più di garanzia e controllo che operativo – ad occuparsi della gestione quotidiana è il segretario generale dell’organizzazione – ma la nomina di Prokopchu sarebbe comunque un segnale molto negativo, dicono molti critici dell’attuale gestione. La nomina di Prokopchu sembra molto probabile e il rischio connesso ad essa è che l’Interpol diventi sempre di più uno strumento nelle mani dei regimi autoritari per colpire, senza troppe difficoltà, la libertà degli avversari politici anche al di fuori dei confini nazionali.