Netflix sta imparando a essere meno Netflix
Era abituata a usare dati e algoritmi per ogni sua decisione, ma ora che lavora con grandi attori e registi di Hollywood ha dovuto fare compromessi
Netflix è una società ibrida: si occupa di film, programmi e serie tv, ma lo fa mettendo a disposizione contenuti via internet, quindi non attraverso i cinema e i canali tv. Questo, almeno all’inizio, aveva determinato una certa distanza di Netflix dal tradizionale mondo della televisione e del cinema, e le aveva permesso di comportarsi e funzionare con le logiche delle società tecnologiche della Silicon Valley, lasciando che fossero dati e algoritmi a dettare molte delle sue scelte. Ora che la società è cresciuta e ha cominciato a puntare moltissimo sulla produzione di contenuti originali, quella distanza si è molto ridotta e Netflix è dovuta cambiare. Da una parte perché se si vuole lavorare con importanti registi, produttori o attori, bisogna accettare che spesso siano loro a decidere come fare le cose; dall’altra perché se ci si fida solo dei dati si rischia di non riuscire mai a fare qualcosa di davvero nuovo.
Netflix non dice granché dei suoi algoritmi. Si sa però che analizza abitudini e comportamenti degli utenti per decidere cosa mostrare loro in diversi momenti della giornata e su diversi dispositivi. Gli algoritmi servono a Netflix per proporre cose personalizzate agli utenti – «il mio Netflix non è il tuo Netflix», ripetono spesso in quegli uffici – ma anche per capire come proporre certi prodotti agli utenti e su cosa puntare come società. Netflix usa per esempio diverse immagini o descrizioni per presentare lo stesso prodotto a utenti diversi, e fa anche test di vario tipo a livello di design: è successo, tra le altre cose, che ad alcuni utenti cambiasse per qualche tempo l’icona per far partire la visione. Netflix fa test di questo tipo su circa 100mila persone ogni anno, scelte casualmente tra i suoi utenti, e affina costantemente la promozione dei suoi contenuti.
Questo è uno degli aspetti che le ha consentito di crescere così tanto in così poco tempo, ottimizzando gli investimenti in modo da offrire ai suoi clienti solo prodotti che sarebbero stati apprezzati. Per esempio, Netflix usa i dati che raccoglie per capire su quali serie puntare e quali non è invece il caso di rinnovare, ma anche per capire quali immagini invoglino certi utenti a far partire la visione o come girare i film e le serie prodotti per evitare che gli utenti interrompano a metà. Cary Joji Fukunaga, che per Netflix ha diretto la serie Maniac, ha detto:
«Sono una data company, sanno esattamente come gli spettatori guardano le cose. Quindi possono guardare la tua sceneggiatura e dirti: sappiamo che se girerai questa scena, perderemo tot. spettatori in quel momento. Fa effetto. Non è come dire: abbiamo opinioni diverse, discutiamone e vediamo chi ha ragione. L’algoritmo ha sempre ragione, alla fine».
Il fatto è che attori e registi di Hollywood – e più in generale anche altrove – non sono abituati a ragionare così, e quindi a Netflix è toccato trovare un compromesso quando ha deciso di lavorare di più con loro. Il Wall Street Journal ha fatto qualche esempio, dopo averne parlato con alcuni importanti collaboratori ed ex collaboratori di Netflix. Ci sono serie che, nonostante gli scarsi risultati di pubblico, non sono state cancellate per salvare il rapporto con produttori o attori con cui lavorare in futuro. Pare anche che un anno fa si parlò molto, negli uffici di Netflix, di non rinnovare la serie GLOW sul wrestling femminile negli anni Ottanta. Gli algoritmi dicevano che non c’erano abbastanza spettatori; le persone di Netflix abituate a lavorare nel cinema e nella tv spiegarono però che, data l’importanza della ideatrice della serie (Jenji Kohan, che aveva lavorato a Orange is the New Black) e dato che la serie piaceva alla critica, valeva la pena continuare a produrla.
Qualcosa di simile accadde anche con la serie comica Lady Dynamite. I dirigenti delle aree che si occupano di analizzare i dati volevano tagliarla dopo una stagione; il capo dei contenuti di Netflix, Ted Sarandos, e altri dirigenti riuscirono a rinnovarla per una seconda. Il Wall Street Journal ha raccontato anche che Netflix si accorse, dagli algoritmi, che la serie Grace and Frankie attirava più click se per presentarla nel sito o nell’app si metteva una foto della co-protagonista Lily Tomlin e togliendo dalla foto l’altra attrice della serie, Jane Fonda. Solo che, anche per non mancare di rispetto a Fonda, si scelsero immagini con entrambe le protagoniste. Tra l’altro molti attori prevedono ora nei loro contratti clausole specifiche che permettano di avere voce su ogni modo in cui Netflix usa la loro immagine. Un attore può imporre a Netflix di mostrare, nella homepage del sito o nella sua app, solo certe immagini di anteprima.
Bob Heldt, un dirigente che ha lasciato Netflix un anno fa, ha parlato al Wall Street Journal di una «naturale tensione tra le due parti. Perché la gente di Hollywood non crede nei dati tanto quanto quella della Silicon Valley». Netflix ha risposto parlando di «un normale e aperto dibattito». Come disse Ted Sarandos, bisogna evitare il rischio di «finire incastrati nei calcoli, perché altrimenti finisci per fare sempre la stessa cosa». Vedere che qualcosa piace e continuare a farla all’infinito funziona solo per un po’: magari non fa diminuire gli abbonati, ma nemmeno li fa salire. «I dati», spiegò Sarandos, «ti dicono cosa è stato il passato, non cosa succederà nel futuro».
Finora Netflix sembra essere riuscita a stare a metà tra Hollywood e Silicon Valley, ma non è semplice e continuerà a non esserlo. Come hanno scritto Shalini Ramachandran e Joe Flint sul Wall Street Journal, nonostante gli algoritmi siano parte integrante del DNA di Netflix, la società sta scoprendo che «conviene moderare l’amore per i modelli e imparare ad ascoltare le richieste di certi attori e registi, anche quando queste richieste sembrano fare a pugni con gli algoritmi».