Facebook ha più colpe di quanto pensassimo
Una nuova inchiesta del New York Times sostiene che per mesi provò a insabbiare il ruolo che aveva avuto nell'elezione di Trump, occupandosene solo quando era troppo tardi
Dopo gli scandali sulle interferenze russe nelle elezioni statunitensi e sulle grosse falle nella gestione dei dati degli utenti, Facebook ha puntato molto sull’ammissione di responsabilità e sulle scuse pubbliche per provare a recuperare la fiducia dei suoi utenti; ha diffuso dati e documenti interni per spiegare quello che era andato storto, ha avviato profonde indagini per provare a migliorare le cose e il fondatore e CEO di Facebook Mark Zuckerberg si è presentato al Congresso per testimoniare ed essere interrogato, cercando di mostrarsi aperto e trasparente. Dietro a questo sforzo, però, come ha raccontato una nuova indagine del New York Times, ce n’è stato uno opposto: quello con cui Facebook ha provato a screditare i suoi avversari e a fare pressioni su politici per ottenere trattamenti di favore. Inoltre, ha raccontato il New York Times, per mesi e mesi Facebook cercò di insabbiare il problema, e cominciò a occuparsene solo quando divenne inevitabile e quando probabilmente era troppo tardi.
La prima cosa grossa che emerge dall’inchiesta del New York Times è che dentro Facebook ci sono stati grossi ritardi nel riconoscere e affrontare il problema degli abusi condotti tramite il social network. Le due persone che sembrano maggiormente responsabili di queste lentezze – prima – e di una scarsa trasparenza – poi – sono le due più potenti della società: il 34enne fondatore e CEO di Facebook Mark Zuckerberg e la 49enne Sheryl Sandberg, ex funzionaria dell’amministrazione Clinton, già dirigente di Google, poi diventata direttrice operativa di Facebook.
I problemi per Facebook non sono arrivati tutti insieme durante la campagna elettorale del 2016 negli Stati Uniti. Da tempo il social network era criticato per come permetteva la facile diffusione di messaggi di odio e di propaganda razzista, ma Facebook si era sempre difeso dicendo di essere solo una “piattaforma” e non una società editoriale e di non volersi prendere la responsabilità dei contenuti che venivano pubblicati dai suoi utenti. Zuckerberg, che controlla il 60 per cento delle azioni di Facebook, non si era mai occupato di questo tipo di questioni: ci fu quindi una certa sorpresa quando nel dicembre 2015 chiese spiegazioni su un post della pagina di Donald Trump in cui si prometteva il divieto di immigrare negli Stati Uniti per tutti i musulmani, diffondendo un chiaro messaggio di odio religioso.
Gestire gli aspetti “politici” di Facebook era sempre stato il lavoro di Sandberg, che aveva anche scelto i rappresentanti della società a Washington (dove c’è il Congresso e dove si tessono i rapporti con politici e legislatori): in quel momento il ruolo era operativo era affidato a Joel Kaplan, ex funzionario dell’amministrazione Bush e collega ad Harvard di Sandberg. Dopo l’interessamento di Zuckerberg nella questione ci fu una riunione, a cui parteciparono anche Sandberg e Kaplan: il messaggio di Trump fu letto e confrontato con le regole di uso di Facebook e alla fine fu deciso che non c’erano violazioni. Sandberg, che era appena tornata al lavoro dopo la morte del marito, non sembrava molto interessata alla questione e l’argomentazione di Kaplan fu quella vincente: Trump era un importante personaggio pubblico e bloccarlo su Facebook sarebbe sembrata una limitazione della libertà di parola che avrebbe irritato i Repubblicani.
Ancora una volta, Facebook aveva deciso di non occuparsi dei contenuti diffusi sulla sua piattaforma: ma pochi mesi dopo i problemi si fecero ancora più grossi. Nel 2016, pochi mesi prima dell’elezione di Trump alla Casa Bianca, gli esperti di sicurezza informatica di Facebook guidati dal capo della sicurezza aziendale, Alex Stamos, scoprirono che hacker russi stavano cercando su Facebook persone collegate alla campagna elettorale, per infiltrarsi nei loro account; pochi mesi dopo fu scoperto che alcuni hacker russi stavano inviando a giornalisti materiale proveniente dalle email rubate alla campagna elettorale di Hillary Clinton. Facebook non aveva risorse o politiche su come intervenire sulla diffusione di notizie false, ma Stamos – dopo aver informato il capo dell’ufficio legale di Facebook Colin Stretch – organizzò una squadra per indagare la questione. Quando, pochi giorni dopo l’elezione di Trump, Zuckerberg disse pubblicamente che escludeva ogni ruolo di Facebook nel decidere le elezioni, per Stamos fu una nuova sorpresa: sembrava che il suo capo non fosse al corrente di quello che lui e la sua squadra stavano facendo.
Stamos allora organizzò un incontro con Zuckerberg, Sandberg e altri dirigenti di Facebook per aggiornarli su quello che aveva scoperto. Sandberg – racconta il New York Times – era terribilmente arrabbiata con Stamos per aver agito di sua iniziativa, perché questo avrebbe potuto indebolire la posizione di Facebook dal punto di vista legale, ma fu deciso di ufficializzare il lavoro di indagine e portarlo a termine. Stamos voleva pubblicare i risultati a cui era arrivato, ma dentro Facebook in pochi condividevano le sue intenzioni. Dagli uffici di Washington, in particolare, arrivò il consiglio opposto. Era da poco stato pubblicato un rapporto dell’intelligence statunitense sui tentativi della Russia di influenzare le elezioni – quelli da cui sarebbe poi nata l’inchiesta di Robert Mueller su Trump – e rincarare le accuse avrebbe messo Facebook in una brutta posizione con la nuova amministrazione Repubblicana, spiegò Kaplan.
Sandberg era d’accordo con Kaplan. Zuckerberg – che nel 2017 impiegò quasi tutto il suo tempo in un giro “conoscitivo” degli Stati Uniti – non partecipò nemmeno alla discussione. Ad aprile 2017, tre mesi dopo l’insediamento di Trump, le ricerche di Stamos furono pubblicate, ma la parola “Russia” non compariva nemmeno una volta nei documenti. Anche nei suoi rapporti con i senatori democratici che si stavano occupando delle questione, Facebook mantenne questa linea: la Russia non aveva usato il social network per influenzare le elezioni. Ancora pochi mesi, però, e la situazione si sarebbe fatta molto più grave.
L’estensione degli sforzi della Russia per influenzare il dibattito pubblico americano prima delle elezioni divenne sempre più evidente, dentro a Facebook. Ogni settimana venivano individuate nuove pagine nate per diffondere notizie false e nuove pubblicità ingannevoli usate per lo stesso scopo. Ad agosto la situazione era così grave che Sandberg e Zuckerberg decisero di parlarne pubblicamente per la prima volta e a Stamos fu chiesto di informare anche la commissione di controllo di Facebook, presieduta da Erskine Bowles, un imprenditore con un passato di molteplici incarichi alla Casa Bianca.
Contrariamente a quanto concordato con Sandberg, Stamos raccontò a Bowles quello che aveva scoperto sull’uso del social network da parte della Russia e poco dopo, in una diversa riunione, Bowles interrogò duramente Sandberg e Zuckerberg su quello che era successo. Racconta il New York Times che Sandberg, visibilmente scossa, si scusò; Zuckerberg invece cercò di uscire dall’impaccio parlando di soluzioni tecniche al problema. Il comunicato che Sandberg e Zuckerberg avevano deciso di pubblicare fu rivisto e accorciato: si parlava vagamente del ruolo dei troll russi nelle elezioni e si accennava solo ai soldi che erano stati investiti per promuovere pubblicità elettorali. Era il settembre 2017, era passato quasi un anno dalle elezioni statunitensi e ancora Facebook non aveva ammesso pubblicamente tutto quello che sapeva sulle interferenze di un altro paese nelle elezioni.
Grazie a una serie di indagini giornalistiche che vennero pubblicate in quelle settimane, l’enormità del problema diventò finalmente chiara e anche a livello politico la pressione su Facebook cominciò ad aumentare. Anche il Partito Democratico – che tradizionalmente era stato “amico” delle grandi società tecnologiche californiane e di Facebook – cambiò approccio. Facebook fu di fatto costretta a consegnare al Congresso i documenti che provavano l’estensione delle interferenze russe nelle elezioni e per due volte dovette correggersi pubblicamente, arrivando infine ad ammettere che 126 milioni di persone avevano visto contenuti creati da agenti o hacker russi.
A quel punto l’atteggiamento pubblico di Facebook su tutta la questione cominciò a cambiare. Il problema era stato almeno in parte ammesso e bisognava chiedere scusa. Pochi mesi più tardi, nella primavera del 2018, si sarebbe infine arrivati alla testimonianza di Zuckerberg al Congresso, con cui la società provò a mostrarsi estremamente cooperativa e trasparente. Questo almeno è quello che si è osservato da fuori: dietro a questa facciata, racconta il New York Times, iniziò infatti un enorme sforzo di contrattacco con cui Facebook – e Sandberg in particolare – provò a mettere pressione a sua volta sul Congresso per avere un trattamento meno duro e lavorò per screditare oppositori e concorrenti che dai guai di Facebook avevano cominciato a trarre qualche beneficio indiretto.
Nell’ottobre del 2017, per esempio, Facebook allargò la sua collaborazione con il gruppo di consulenza Definers Public Affairs, specializzato nell’applicazione di tecniche tipiche delle campagne elettorali a questioni di gestione dell’immagine pubblica. In poche parole, degli squali. Uno dei suoi dirigenti, Tim Miller, aveva per esempio detto esplicitamente che le società di tecnologia dovevano “ottenere la pubblicazione di contenuti positivi sul loro conto e di contenuti negativi sul conto degli avversari”, una cosa che di fatto Facebook cominciò a fare tramite Definers Public Affairs e tramite il sito di notizie NTK Network. Quasi sconosciuto ai lettori ma spesso ripreso da forum e siti di estrema destra, tra cui Breitbart News, il sito gestito dall’ex consigliere di Trump Steve Bannon.
Questo tipo di sforzi è andato aumentando, specialmente quando nel marzo del 2018 una nuova grossa inchiesta giornalistica raccontò dei modi in cui Cambridge Analytica aveva sfruttato una falla nella sicurezza di Facebook per profilare i suoi utenti e usare le informazioni raccolte a scopi politici. Quando gruppi rivali – tra cui Google e Apple – cominciarono ad approfittare dei nuovi enormi guai di immagine di Facebook, presentandosi come dei convinti difensori della privacy dei loro utenti, su NTK apparvero decine di articoli che criticavano Google e Apple per come gestivano i dati dei loro utenti. In un articolo si parlava esplicitamente del CEO di Apple Tim Cook, accusandolo di essere un ipocrita per aver criticato Facebook.
Dopo che un gruppo di manifestanti aveva fatto irruzione durante un’audizione al Congresso a cui stava testimoniando una dirigente di Facebook, un dirigente della società chiamò l’Anti-Defamation League – un’importante organizzazione ebraica per i diritti civili – per chiedere aiuto. Poco dopo, l’ADL pubblicò un comunicato in cui si accusavano i manifestanti del Congresso di aver diffuso messaggi antisemiti. Sia Sandberg che Zuckerberg sono ebrei. L’organizzatore della manifestazione – un esperto di comunicazione vicino al Partito Democratico – ha spiegato al New York Times che non c’erano riferimenti intenzionalmente anti semiti nei manifesti usati durante la protesta.
Sempre sfruttando Definers Public Affairs, Facebook provò a contrattaccare anche accusando il ricco imprenditore e filantropo George Soros di aver finanziato gruppi di estremisti di sinistra che osteggiavano Facebook. Definers fece circolare un documento in cui si suggerivano legami poco chiari tra Soros e alcuni di questi gruppi e fece pressione su alcuni giornalisti affinché indagassero in quella direzione. Soros è al centro di decine di bufale e teorie del complotto, legate solitamente ad ambienti populisti di estrema destra (la sua organizzazione ha negato le accuse di aver finanziato campagne contro Facebook).
Politicamente, Sandberg provò a riallacciare i rapporti con il Partito Democratico, sfruttando vecchie amicizie e impegnandosi direttamente – ma discretamente – nella gestione delle pubbliche relazioni di Facebook a Washington. Tra le altre cose, per esempio, Facebook sostenne pubblicamente una controversa legge contro la prostituzione minorile che era stata criticata da tutte le altre grandi società tecnologiche per i suoi effetti sulla libertà su internet. Ma Sandberg si diede da fare anche con i Repubblicani, cercando di costruire relazioni amichevoli e collaborative con il senatore a capo della commissione che indagava le interferenze russe, Richard Burr. In almeno un caso, Facebook ricorse anche all’aiuto del capo dei Democratici al Senato, Chuck Schumer, che intervenne personalmente per chiedere a uno dei membri della commissione che indagava sulla Russia di moderare gli attacchi contro Facebook.
In qualche modo, questi sforzi sembrano aver funzionato, suggerisce il New York Times. Sandberg avrebbe dovuto partecipare a una nuova audizione al Congresso, a settembre, per parlare di sicurezza informatica e influenze russe: probabilmente grazie all’intenso lavoro di pressione delle settimane precedenti era stato ottenuto che oltre a un rappresentante di Facebook venissero inviati anche dei rappresentati di Google e Twitter, in modo da trasmettere l’idea che non ci fosse un solo colpevole. Il giorno prima dell’audizione di Sandberg, inoltre, il capo della commissione che l’avrebbe interrogata, Richard Burr, diffuse un comunicato ai suoi colleghi chiedendo di evitare domande poco attinenti con l’indagine, come quelle sulla privacy, le censure e su Cambridge Analytica.
Rispondendo all’inchiesta del New York Times, Facebook ha detto che non è vero che ignorò il problema delle interferenza russe nelle elezioni, una volta che ne fu a conoscenza, e ha detto che nessuno impedì a Stamos di indagare la faccenda. Facebook ha aggiunto che la legge sulla prostituzione minorile fu sostenuta da Sandberg per convinzione della sua bontà e non per ragioni strategiche e ha spiegato di non aver mai chiesto a Definers di pubblicare articoli che attaccassero i suoi concorrenti. Facebook ha comunque detto di aver interrotto i suoi rapporti con Definers poco dopo la pubblicazione dell’inchiesta del New York Times.