I rohyngya non vogliono tornare in Myanmar
Giovedì dovrebbe iniziare il loro rimpatrio dal Bangladesh: forzato, come hanno denunciato molte organizzazioni non governative
I rifugiati rohingya, scappati dal Myanmar dopo la crisi cominciata nell’agosto del 2017, stanno fuggendo ora dai campi profughi del vicino Bangladesh dove avevano cercato accoglienza, per paura di essere rispediti nel loro paese. Il rimpatrio dei rohingya, minoranza etnica di religione musulmana, dovrebbe cominciare giovedì 15 novembre, come ha annunciato il ministro birmano degli Affari sociali Win Myat Aye. Il rimpatrio dovrebbe coinvolgere inizialmente 4mila rifugiati che sono stati inseriti in un elenco per il rimpatrio senza però il loro consenso, sostengono molte organizzazioni non governative. La maggior parte dei rifugiati, se non tutti, scrive il Guardian, ha infatti dichiarato di non voler tornare indietro. E ci sono diverse prove che i rifugiati sulla lista siano stati messi sotto pressione o intimiditi, mentre invece le autorità del Bangladesh hanno insistito sul fatto che tutti i rimpatri saranno volontari.
La crisi in Myanmar era cominciata nell’agosto del 2017 con gli scontri tra esercito birmano e ribelli rohingya nello stato del Rakhine, nell’ovest del paese, vicino al Bangladesh. Nel giro di poche settimane centinaia di migliaia di civili – si parla di 700 mila persone – erano state costrette a lasciare le loro case, avevano superato il confine con il Bangladesh e si erano rifugiate nei campi profughi vicini alla frontiera. Le violenze commesse dai soldati birmani e dall’esercito – i cui vertici, secondo l’ONU, dovrebbero essere processati – sono state enormi: uccisioni indiscriminate, incendi di interi villaggi e stupri diffusi e sistematici. A maggio di quest’anno erano passati nove mesi dall’inizio dell’esodo, ed è stato anche il momento in cui le donne rohingya hanno cominciato a partorire i bambini nati da quelle violenze sessuali.
Diversi gruppi per la difesa dei diritti umani hanno fatto sapere che la situazione in Myanmar per i rohingya non offre garanzie di sicurezza e che un piano per i rimpatri è assolutamente prematuro. La scorsa settimana, tra l’altro, a Rakhine ci sono state delle manifestazioni organizzate dai nazionalisti proprio contro il ritorno dei rohingya. Mohammad Ismail, un uomo di 50 anni che vive nel campo profughi di Jamtoli, im Bangladesh, con la moglie e sei figli, intervistato dal Guardian, ha detto di essere stato informato della lista dei rimpatri la scorsa settimana: «Ho detto che ero troppo spaventato per tornare in Myanmar nella situazione attuale, perché è ancora molto pericoloso per tutti i rohingya. Ma hanno detto che dovremmo tornare comunque entro pochi giorni». E ancora: «Sono molto spaventato al pensiero che la polizia del Bangladesh ci costringa ad attraversare il confine. Se provano a costringerci a tornare indietro, penso di dovermi suicidare. È meglio suicidarsi che andare in Myanmar senza una garanzia di sicurezza».
L’International Crisis Group (ICG, organizzazione non governativa che svolge attività di ricerca sul campo in materia di conflitti violenti e che ha sede a Bruxelles) ha fatto sapere che «alcuni dei rifugiati sulla lista per il rimpatrio sono entrati in clandestinità per paura». E l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha affermato in un comunicato che ai profughi dovrebbe essere permesso di visitare il loro paese e decidere in modo autonomo se ci sono le condizioni per tornare.
In effetti, sembra che quei rohingya che torneranno a Rakhine, oltre a non essere certi per la loro sicurezza, non avranno nemmeno libertà di movimento e vivranno sotto le stesse restrizioni repressive precedenti allo scontro militare. Win Myat Aye, ministro degli Affari sociali del Myanmar, ha detto che il ritorno dei rohingya sarà limitato solo al distretto di Maungdaw, nello stato di Rakhine. Ha detto anche che i rifugiati che torneranno in Myanmar saranno portati prima in un campo profughi. Chi ha perso la casa riceverà una residenza temporanea o resterà nell’insediamento, ma solo se accetterà di aderire a un programma governativo che prevede la partecipazione diretta e stipendiata, ha precisato, alla ricostruzione delle proprie case.