L’attesa di un ex follicolo venuto bene
Cioè di una bambina che sta per nascere: la figlia dello scrittore Stefano Sgambati, in sette pagine del suo ultimo libro
Ci sono tanti libri che parlano di maternità e donne che aspettano di diventare madri: forse ce ne sono un po’ meno che parlano di paternità e uomini che aspettano di diventare padri. A settembre Mondadori ne ha pubblicato uno che appartiene alla seconda categoria: La bambina ovunque dello scrittore Stefano Sgambati. È un’autobiografia che, in modo spesso divertente e divertito, racconta di come Sgambati e sua moglie per diversi anni hanno cercato di avere un figlio e di come alla fine hanno avuto una bambina, il tutto dalla prospettiva di un futuro padre e poi neo-padre che cerca di capire il suo nuovo ruolo. Già dal titolo e dalla dedica («Scusami, ma questo è per tua madre») si capisce un po’ che punto di vista è.
Sgambati presenterà La bambina ovunque sabato 10 novembre a Pescara, in occasione del FLA, il Festival di Libri e Altre cose, organizzato con la complicità del Post. Pubblichiamo un estratto del libro, che sta più o meno a metà delle sue 137 pagine e racconta gli ultimi momenti ancora non da padre.
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Ognuno di noi ha due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e così via. Risalendo fino all’epoca dei romani ciò significa, in linea teorica, un miliardo di miliardi di antenati diretti per ciascuno di noi. Ho letto che uno spermatozoo, dividendosi da quarantasei a ventitré cromosomi, può dare luogo a otto milioni di combinazioni diverse. Altrettante per l’ovulo. Ricombinandosi tra loro le sequenze possibili aumentano a dismisura: il risultato mostruoso è che due genitori possono generare qualcosa come centomila miliardi di figli, geneticamente tutti diversi l’uno dall’altro.
Il pensiero grandioso per cui mia moglie e io disponiamo di tale potere non compensa il fatto che mia figlia potrebbe essere chiunque.
In effetti da quando la ginecologa ha pronunciato la frase “Da adesso può nascere in qualsiasi momento” sono precipitato, e c’era da aspettarselo, in un abisso fatto di letture e riletture delle più svariate sintomatologie: fosse per me mia moglie dovrebbe già essere ricoverata, osservata da dodici o tredici medici ventiquattro ore su ventiquattro, intubata e il suo organismo invaso di sostanze psicotrope calmanti, la sala d’attesa dell’ospedale gremita di parenti e amici, troupe televisive, giornalisti; invece è uscita.
Mia moglie è uscita.
Per la precisione prima è uscita la pancia, poi mia moglie, che ormai mi pare la segua: segue una pancia enorme che contiene nasconde protegge nostra figlia, la persona qualunque che piegherà il piano inclinato del mondo. Sono rimasto sei o sette secondi dietro la porta chiusa, ho ascoltato il rumore dell’ascensore, colpi di tosse di sconosciuti, poi non ho sentito più niente.
Ho pensato: è uscita. Così, semplicemente. Ha preso ed è uscita. Mi sono dovuto dire due o tre volte: andrà tutto bene, ma il concetto veniva puntualmente soverchiato da una frase che nella mia testa risuonava come un’eco, tipo film dell’orrore: da adesso può nascere in qualsiasi momento. Bene: avrei retto l’impatto. Avrei fatto ciò che c’era da fare. Da nove mesi ero in posizione di partenza. Si può dire che fossi pronto: una gravidanza non può protrarsi per sempre. Perciò ho pensato: brindiamo. Sì, brindiamo. Un bicchiere di vino, due bicchieri di vino: adesso prendo una bottiglia e la apro, solo per me, è giusto rispettare una certa ritualità. L’ho fatto per motivi meno sacrali, un risultato sportivo, l’inizio di un viaggio, un conseguimento professionale. Un figlio sarà pure all’altezza di un brindisi, o no? Poi un altro pensiero: e se mi ubriaco e quella partorisce? E se mi telefona e io non so più dove ho lasciato il telefonino? E se dovesse aver bisogno di me? Una ridda di ragionamenti che non sortiscono effetti definitivi, se non una certa prudenza nei movimenti: cellulare nella tasca posteriore dei jeans, volume al massimo, vibrazione inserita, scarpe bene allacciate e la scelta accurata della bottiglia, non una particolarmente prestigiosa o gradita anche a mia moglie: vino bianco, per cominciare (lei predilige il rosso), non voglio sottrarre niente a un momento che potrebbe e dovrebbe essere nostro, di coppia: non è il caso di tirare fuori “l’argenteria”, questa è solo una prova generale, un momento liturgico ma laico che sento di voler dedicare a me stesso, a questo me stesso che ho costruito in questi mesi, e di cui non sospettavo l’esistenza appena un anno fa, il padre, un benvenuto, cin-cin. Sono le sette di sera, ma il sole non sembra essersene accorto. Il terrazzo è una spiaggia, tutto sommato sto bene, mi piace, ho paura, ma sto bene: mi piace avere paura. È un sentimento complesso che mi fa ragionare su me stesso. Mia moglie è uscita, manca pochissimo. Da adesso può nascere in qualsiasi momento. Incontrerà un altro paio di incoscienti madri del corso preparto con cui è rimasta misteriosamente in contatto, ed ecco un’altra delle cose che sono successe. Nell’ultimo mese ho accompagnato mia moglie ai vari appuntamenti del corso preparto e così ho scoperto di non essere solo, di non essere l’unico padre esistente al mondo. Ne avevo il sospetto ma vederlo intorno a me ha cambiato anche se di poco la mia percezione della realtà. Non so se in meglio o in peggio. Comunque sia, adesso lei è uscita e tutte insieme potrebbero partorire a piazza del Duomo, tra i piccioni e i cinesi, trasformandosi in un perfetto soggetto per un’installazione artistica contemporanea sulla fertilità. Cin-cin a voi, signore. E se mi telefona? E se fosse adesso il momento? E se avesse bisogno di me? Cin-cin. È assurdo essere arrivati a un punto di tale estensione della fase adulta – la paternità imminente – e provare lo stesso tanta paura. Non dovrei essere inscalfibile? Maturo? Una sfinge? La musica di Keith Jarrett. Un altro pensiero: non dovrei essere più felice che impaurito? E ancora: potrebbe essere l’ultima giornata di sole che vivrò senza mia figlia. Potrebbe essere l’ultimo bicchiere di vino bevuto da solo. Poi arresto subito questo elenco delle Ultime Cose, perché non sono ancora abbastanza alterato. Le persone ragionano, pensano, credono, fanno cose. Mia figlia sarà tutto ciò. Sento che dovrei fermare un simile vortice di ragionamenti retorici. Questa persona qualsiasi, il frutto di una concatenazione di miliardi di incroci non voluti da noi, non decisi da niente di umano… già pensandoci sento che lei non è più mia figlia, già non mi appartiene più. Se berrà un Bloody Mary, se avrà paura di volare, se le piacerà giugno, se vorrà andare in vacanza a Londra: sono milioni le variabili che non verranno dal mio DNA. Non so parcheggiare se c’è qualcuno che mi sta guardando e non ho mai chiesto in vita mia, mai, giuro, non ci sono mai riuscito, un’informazione a un passante senza sentire le palpitazioni aumentare, eppure ho creato un essere umano che avrà un odore.
Luglio è arrivato col passo lentissimo degli eventi epocali. Quella data – 12 luglio – che per prima ci era stata indicata dalla ginecologa dopo un rapido e direi svogliato consul- to su una specie di ruota sagomata su cui aveva incrociato i dati in suo possesso, quella data, quando era appena autunno e tutto un secolo sembrava dover passare, suonava bugiarda, quella data è invece arrivata e, anche se non è ancora nata, la bambina c’è già. Non ha bisogno di essere partorita. C’è già. Non è in un altro mondo, è in questo. Se mia moglie mi invia sul telefonino la sua posizione, quella è anche la posizione di mia figlia. Se mia moglie è seduta in quel bar nella Galleria Vittorio Emanuele, spero non a bere un Negroni, anche mia figlia è seduta in quello stesso bar nella Galleria Vittorio Emanuele. È solo un sottilissimo strato di pelle che impedisce la vista. Ci impoveriremo, sarà divertente e sarà terribile. Sarà tutto così vivo che potrebbe uccidermi adesso, mentre ci penso. Dovrebbe essere una storia di felicità, ma allora perché mi sembra tutto così immensamente disperato? Cin-cin, faccio a questa vita che sta arrivando, ma mi rendo conto che o è un bicchiere particolarmente capiente o non è più il primo bicchiere. Faccio due controlli, giusto per sicurezza: il cellulare, che è ancora nella tasca posteriore dei jeans, non porta notizie di alcun tipo, nessuno ha chiamato, da piazza del Duomo tutto tace e va benissimo così: il sole è più basso, spostato leggermente a sinistra, tra poco precipiterà oltre la linea dell’orizzonte macchiato dai profili delle gru: scheletri di cantieri edilizi che mia figlia vedrà terminati. Al di là di ogni retorica, penso: non sono pronto per essere utile a questa nuova persona che arriverà. È una sensazione flebile, proveniente da qualche anfratto del cervello, comatoso ma vivo abbastanza: la sensazione di aver dimenticato qualcosa che ogni tanto coglie in ascensore, prima di un viaggio. Non è detto sia vero. Ma a volte lo è. È già capitato e capiterà ancora che, arrivati a destinazione, ci siamo dovuti far inviare il portafoglio via corriere, o siamo andati a comprare di corsa gli assorbenti, lo spazzolino. Va bene, ma io? Dove lo trovo lo spazzolino? Da chi potrei farmi inviare ciò di cui ho bisogno, ciò che ho dimenticato, se nemmeno io so che cos’è?
Mia moglie è uscita, si è portata appresso la sua pancia: avrei preferito la lasciasse a me, l’avrei tenuta al sicuro, accarezzandola per tutto il tempo. Per dire a mia figlia: eccoci, è estate, manca poco. Stai arrivando. Stai arrivando qua. Ti aspettiamo da quanto? Nove mesi? No, di più. Due anni, tre. Una vita intera. Tante estati, tantissimo mare, un bagno nudi nell’oceano Indiano.
Un giorno te lo racconteremo.
Nel parco i cani corrono e ogni tanto abbaiano. I richiami dei padroni rivelano nomi propri quasi sempre anglofoni. Sarai una di quelle persone che raccoglie le cacche con un sacchetto? Si muovono a coppie o a piccoli gruppi: forse si sono conosciuti durante le passeggiate, o può darsi che si siano dati appuntamento lì dalla mattina prima. Mi piace guardarli: è qualcosa che ha senso, è qualcosa che funziona secondo logiche chiare. Un algoritmo, un problema calcolabile che si oppone al mistero che sento dentro e intorno a me. Non c’è un’altra cosa che vorrei adesso di più come potermi dire con certezza che sarò un buon padre. Non mi interessa esserlo davvero: mi basterebbe esserne convinto. Potrebbe bastare. Invece non ci riesco, nonostante il vino, il sole, il terrazzo. Prima di un volo in aereo so dirmi, al net- to delle mie paure ancestrali, che sì, sopravvivrò, che tempo dodici ore starò lanciando le valigie su un letto di hotel.
Me lo dico sul serio, me ne convinco e se non parto tranquillo poco ci manca. Così come so nutrire quella specie di certezza assoluta per cui se mia moglie non mi risponde subito al telefono, be’, non significa che è morta. Una parte inascoltabile di me lo sa che “improbabile” non vuol dire “impossibile”, ma comunque è una parte di me che soccombe o si lascia soccombere. Adesso no: adesso questa parte ha la scorza dura e resiste. Non mi permette di dirmi che sarò un buon padre.
Cin-cin.
Sei piani più giù l’algoritmo continua coi suoi processi facilmente codificabili: passano due ragazzi con delle pile di cartoni della pizza, andranno a casa, prenderanno dei piatti, a breve le mangeranno. Forse c’è una partita importante in televisione. Forse ci sono delle ragazze. Più o meno quattro anni fa, la prima volta che uscii all’incirca a quest’ora per andare a prendere le prime due pizze che avremmo consumato nella nostra nuova casa, mia moglie mi aspettò affacciata al terrazzo e, quando fui di nuovo visibile, mi chiamò e si sbracciò e io la vidi da giù, piccolissima, bionda, felice, con quel braccio sopra la testa, e risposi al saluto: eravamo noi l’algoritmo, il problema dalla facile soluzione, invece da adesso può nascere in qualsiasi momento. Dopo questa frase, abbiamo salutato la ginecologa, ce ne siamo andati: al posto nostro è entrata un’altra coppia a cui la dottoressa ha detto le stesse parole. All’infinito, un disegno di Escher.
Mia moglie, nel frattempo ho saputo – il telefonino ha vibrato, io l’ho preso con una certa nonchalance, sono riuscito a leggere e anche a rispondere –, sta camminando per corso Garibaldi senza nemmeno un motivo degno di questo nome: mi figuro queste altre due mamme con lei, altre due storie se non identiche simili alla nostra, altrettanti mariti da qualche parte a fare pensieri uguali ai miei. Tra poco nel mondo approderanno altre tre persone che avranno una pizza preferita e dei gusti, tra cui mia figlia. Questo ex follicolo venuto bene, questo ex follicolo che ce l’ha fatta e ha ovulato, anche lei vorrà indossare dei jeans, si asciugherà i capelli osservandosi con charme allo specchio, imprecherà perché si è rovinata lo smalto. Lei, l’unico spermatozoo su oltre duecento milioni: la persona qualsiasi.
È stata una gravidanza così fortunata, serena, fisiologica. Abbiamo qualche soldo da parte: le nostre famiglie potranno aiutarci, nostra figlia sarà protetta e amata e ho motivo di pensare che sarà bellissima e invidiata e riceverà nei prossimi tempi abbastanza attenzioni da potersi raccontare, tra venti o trent’anni, di un’infanzia serena, e io so, lo so, giuro, voglio dirmelo per potermene ricordare in futuro, io so che da qualche parte, tra questi alberi, in questo parco, tra i cani che abbaiano e i padroni che li chiamano, il mio bicchiere di vino vuoto che raccoglie gli ultimi raggi di sole e li rifrange a raggiera in modo complicato, tra questo calore che stempera nella frescura della sera, in questo luglio, in questo algoritmo, in questo mondo, in questo preciso presente in cui mia figlia ancora non esiste ma esiste, io lo so che da qualche parte c’è la Felicità. Lo so. Devo sapere aspettare. Un giorno arriverà: ci fermeremo su quel prato, tutti e tre, dopo aver ripreso nostra figlia dall’asilo, e ci stenderemo e guarderemo il blu del cielo tra le foglie verdi e saremo sempre noi, questa è la cosa più incredibile, sempre noi più un’altra persona. Coi nostri problemi, le idiosincrasie, i segreti, più un’altra persona; gli odori, le carezze, i gusti, i disgusti, più un’altra persona.
Mia moglie è uscita, è estate, ci siamo quasi.
Controllo il telefono, guardo il parco, l’estate, il mondo. Non riesco a dirmelo che sarò un buon padre. Non ci riesco. Ma una cosa sì, una cosa la posso dire, adesso la posso dire, adesso la so, e nessuno potrà più togliermela o negarla.
Quel padre sono io.
Cin-cin.
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