Cosa succede a molte migranti nigeriane in Europa
Raccontato da Pietro Bartolo, il "medico di Lampedusa", che nel suo nuovo libro racconta la storia vera di una bambina di dieci anni arrivata da sola in Italia per cercare sua madre
Negli ultimi anni Pietro Bartolo, il medico che dirige il poliambulatorio di Lampedusa, è diventato una delle persone più note in Italia quando si parla di migranti per via del suo lavoro di soccorso a chi arriva sull’isola siciliana su imbarcazioni di fortuna. In molti lo hanno conosciuto grazie al documentario di Gianfranco Rosi Fuocoammare, che nel 2016 ha vinto l’Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, o ancora prima per via del libro Lacrime di sale, in cui lo stesso Bartolo raccontava la propria esperienza. A ottobre è uscito un altro libro, Le stelle di Lampedusa, sempre pubblicato da Mondadori, in cui Bartolo invece racconta la storia di una bambina nigeriana, Anila, arrivata in Italia per cercare sua madre, emigrata anni prima e costretta a prostituirsi.
La vicenda di Anila e di sua madre è simile a quella di molte altre donne che cercano di raggiungere i paesi europei dall’Africa e in particolare dalla Nigeria, per questo il libro di Bartolo non è solo la storia di una singola famiglia, ma descrive in generale fenomeni terribili di cui pochi si accorgono pur vivendoci molto vicino. Pubblichiamo il decimo capitolo, che fa capire bene di cosa si parla.
Sabato 10 novembre, alle 19, Pietro Bartolo presenterà Le stelle di Lampedusa in occasione del FLA, il Festival di Libri e Altre cose; a parlare del libro con lui ci sarà il giornalista del Post Luca Misculin.
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Più che il governo spagnolo, che se ne lavò le mani pochi secondi dopo il suo sbarco a Gibilterra, a prendere davvero in consegna Carla, ormai agli ultimi giorni di gravidanza, fu direttamente la madame, e cioè il punto terminale dell’organizzazione.
Ogni cosa, sin dal giorno della morte del marito, era andata come era stato previsto. La fuga di Carla dal villaggio in Nigeria per paura del vudù, l’abbandono dei figli in Niger, la traversata nel deserto, lo sbarco a Gibilterra, la telefonata alla madame. Tutti avevano fatto esattamente ciò che dovevano. E adesso quella giovane donna, bella, in forze, disperata, era pronta per essere «immessa sul mercato». Come un prodotto qualsiasi, un telefonino, un dentifricio, un’auto.
Per lei furono scelte le strade di Alicante. Non appena partorito, avrebbe lavorato lì, giorno e notte. C’era solo un piccolo dettaglio ancora da mettere a punto: spiegarlo a Carla. Lei non aveva la minima idea di ciò che davvero l’aspettava. Era convinta che la donna che adesso la stava aiutando a sistemarsi nella nuova realtà, che l’aveva fatta trasferire da Gibilterra ad Alicante e le aveva trovato una casa dove vivere insieme ad altre ragazze giunte come lei dalla Nigeria, le avrebbe procurato anche un lavoro da baby-sitter o da collaboratrice domestica, come le era stato promesso prima di partire.
Nel luglio 2011, a pochi giorni dallo sbarco, nacque Benedict. Un bambino bellissimo, sano come un pesce. Carla affrontò travaglio e parto completamente da sola.
Quello che seguì fu un periodo molto difficile, pieno di inquietudini. Si prendeva cura del figlio e nel frattempo osservava le sue inquiline, che lavoravano notte e giorno e non parlavano mai. Avrebbe voluto fare domande, chiedere cosa stava succedendo, ma loro non dicevano una parola, vivevano come fantasmi, al massimo la guardavano commiserandola, e sempre con distacco.
Adesso tutti i suoi affetti erano altrove. Il suo uomo, il padre di Benedict, era stato rimpatriato in Nigeria, e si disperava ogni giorno. Non aveva visto nascere suo figlio e per questo non si dava pace. Si sentivano appena potevano. Anche con gli altri suoi figli, che vivevano in Niger con la coppia di anziani, i contatti erano costanti ma poco frequenti. Allora Carla si concentrò su Benedict, al quale dedicò tutto l’amore che aveva, e che non poteva dare ad altri.
Poi un giorno successe qualcosa. La madame chiese di parlarle con un po’ di calma, ormai era arrivato il tempo: non erano passate che poche settimane dal parto e il suo congedo per maternità era finito.
Si incontrarono in un bar. Carla aveva portato con sé il bambino, dal quale non si separava mai, e che ora dormiva tranquillo dentro una fascia legata al ventre della mamma. La madame, una donna non più giovanissima, era anche lei nigeriana e parlava lo stesso dialetto di Carla. Ma non sembrava per niente amichevole.
Senza troppi convenevoli andò subito al punto. Spiegò che il governo spagnolo era stato così «gentile» da non rimpatriarla all’istante solo perché era incinta. Ma adesso che il bimbo era nato, le cose erano cambiate. E quel governo così gentile si sarebbe trasformato in una persecuzione continua. Carla era irregolare, non aveva i documenti, non aveva un lavoro, non conosceva la lingua locale. Sarebbero arrivati gli assistenti sociali e le avrebbero portato via Benedict, senza nemmeno lasciarle il tempo di capire che cosa stava succedendo.
Poi c’era il debito da pagare, trentamila euro. Lo aveva promesso davanti al «dottore», in Nigeria, prima di partire. E se non avesse provveduto, il vudù avrebbe potuto colpire uno qualunque dei suoi figli. Insomma, concluse la donna, Carla aveva bisogno di protezione e denaro. E aveva un’unica possibilità: fare quello che le veniva detto, cioè prostituirsi.
Carla non poteva credere a quanto stava sentendo. Era disperata. Non aveva soldi, non aveva amici. Passò una mano tra i pochi capelli di Benedict e capì che non aveva scelta. Doveva accettare.
Qualche giorno dopo si ritrovò seminuda in strada a adescare clienti. Quel lavoro le dava il vomito, la distruggeva emotivamente, ma tutto accadeva in modo così rapido che non aveva nemmeno il tempo di capire quanto fosse tremendo ciò che le stava capitando. Sentiva solo un profondo, violento, continuo disgusto per quello che la circondava. E anche per se stessa. A volte si illudeva che le bastasse non pensarci, tornare a casa e allattare Benedict. Ma il trucco funzionava solo per i pochi minuti di intimità tra lei e il bambino. Poi il disgusto tornava a sopraffarla.
Nei momenti di esitazione, dopo qualche nottata particolarmente faticosa, o nei giorni in cui non riusciva a sentire i suoi figli dall’altra parte del mare, c’era la madame a ricordarle che, senza la sua protezione, il governo le avrebbe tolto Benedict.
Tutto ciò che guadagnava andava via immediatamente: il grosso se lo prendeva quella donna, per la casa e per il debito. Una buona parte di ciò che restava, Carla la inviava in Niger all’indirizzo dell’anziana coppia, e con gli ultimi pochi spiccioli provvedeva al sostentamento quotidiano di Benedict, il latte, i pannolini, i vestiti.
I mesi passavano veloci, e presto Carla imparò a vivere anche lei come un automa, come le ragazze che aveva osservato nella casa di Alicante. Lei non poteva saperlo, ma il suo sguardo era diventato identico al loro, distante, disinteressato, perennemente venato di disgusto. Lavorava tutta la notte e anche parte del giorno, senza pensare a quello che stava facendo, come se il suo corpo fosse qualcosa di separato dalla sua testa, un oggetto, un accessorio. Uno strumento di lavoro. Era l’unico modo per poter accettare quella situazione. Si era scissa: la sua mente e il suo cuore vivevano costantemente nel passato e nel futuro, tra i ricordi e le speranze, mentre ad abitare il presente – quel presente nauseabondo fatto di nottate interminabili sui tacchi alti, ai bordi delle strade – aveva abbandonato il suo corpo. Era l’unico modo per andare avanti e per poter garantire la sopravvivenza a tutta la sua famiglia.
Poi, con il tempo, cominciò a guadagnare sempre di meno: la crisi finanziaria stava travolgendo la Spagna. I soldi che portava a casa ogni mattina non bastavano mai: non alla madame che continuava a rivolgerle minacce pesantissime, non a Benedict che ogni giorno aveva nuovi costosi bisogni, e nemmeno ai suoi bambini in Niger. E questo, per Carla, era il pensiero più assillante. Quando Benedict si addormentava dopo le poppate, invece di dormire anche lei come fanno dopo l’allattamento tutte le mamme che lavorano, cominciava inevitabilmente a pensare a quei suoi figli, abbandonati ormai da quattro anni in un Paese così complesso e povero come il Niger. I due anziani che si erano presi l’impegno di accudirli e proteggerli stavano facendo un buon lavoro, da quanto aveva capito. Ma quei bambini le mancavano da morire, e nessuna mamma dovrebbe stare lontana dai figli per così tanto tempo. Non era umano. Non era giusto.
La sua paura più grande era che si dimenticassero di lei, soprattutto Anila, la più piccola. I bambini sviluppano la capacità di ricordare a partire dai tre anni, e l’idea che sua figlia potesse un giorno non ricordare nulla della sua mamma la distruggeva. C’era anche un altro pensiero che le toglieva il fiato: quello che i suoi due figli più grandi potessero invece sviluppare un sentimento diverso, di rabbia. Al telefono li sentiva sempre più distaccati, sempre più freddi, quasi l’accusassero di averli abbandonati per andarsene in un posto, l’Europa, che veniva dipinto come una specie di strano Eldorado.
Per questo un giorno, più o meno tre anni dopo il suo arrivo in Spagna, Carla aveva chiesto al padre di Benedict di affrontare il viaggio da Benin City ad Agades per andarli a trovare. E di portare loro un po’ di soldi e qualche regalo da parte sua. Di assicurarsi che stessero bene. Appena gli fu possibile, l’uomo esaudì la sua richiesta e raggiunse i tre ragazzi, che in verità non se la passavano affatto bene. Servivano più soldi, insomma.
Carla lo spiegò alla madame, la quale ovviamente fu entusiasta. E decise, d’accordo con l’organizzazione, di trasferire lei e il suo bambino in Francia, a Marsiglia. Alle stesse condizioni. Ciò che cambiava era la realtà economica del Paese, che avrebbe dovuto garantire maggiori incassi.
Fu qualche mese dopo il suo arrivo a Marsiglia che Carla incontrò Monique. Quella notte, mentre stava appoggiata a un muretto scrollando il capo, illuminata dagli anabbaglianti delle auto dei clienti che le sfrecciavano a fianco, non poteva certo immaginare che dentro la macchina parcheggiata poco lontano potesse esserci la via d’uscita al dramma che stava vivendo.
Monique seppe conquistare la sua fiducia e diventarono ben presto amiche. Parlavano di tutto, di quello che succedeva in Nigeria e in Niger, e della sua situazione in Francia. Monique insisteva perché Carla chiedesse asilo politico, ma lei non ne voleva sapere. Continuava a prostituirsi, anche perché doveva finire di pagare il debito e mandare i soldi ai suoi figli lontani, ma almeno ora Benedict andava regolarmente alla scuola materna e sembrava molto più sereno. E questo la faceva stare molto meglio.
Monique cominciava a essere ottimista: Carla era incamminata sulla strada giusta e, con un po’ di tempo e di fortuna, l’avrebbe convinta a fare domanda d’asilo al ministero dell’Interno. Poi, un giorno, l’intera costruzione crollò addosso alle due donne, proprio come un castello di carte. Una telefonata dal Niger informò Carla che le cose laggiù erano cambiate. La donna che fino a quel momento aveva amministrato i soldi per il sostentamento dei tre bambini era morta. E suo marito, anziano e malato anche lui, non ce la faceva più. Non poteva mantenere l’impegno preso di garantire un futuro ai tre ragazzi.
La telefonata gettò Carla nel panico. Anche perché fu seguita da un silenzio terrificante. Il numero al quale contattava la sua famiglia improvvisamente cessò di funzionare, e da allora non seppe più nulla. Carla non aveva idea di cosa fare. In un primo momento pensò di chiedere al papà di Benedict di raggiungere il Niger per vedere con i suoi occhi che cosa stava succedendo, ma l’uomo da qualche mese aveva intrapreso un nuovo viaggio verso l’Europa, per raggiungere lei e il bambino in Francia, e adesso si trovava chissà dove sperduto nel Sahara, cercando di raggiungere la Libia.
La situazione sembrava davvero disperata. Carla piangeva senza tregua, non riusciva più a trattenersi nemmeno davanti a Benedict, che la guardava con aria sgomenta. La sua preoccupazione era soprattutto per Anila. I due maschi ormai erano dei ragazzoni e se la sarebbero certamente cavata. In alcune conversazioni telefoniche avevano addirittura accennato alla possibilità di lasciare il Niger alla volta dell’Europa.
Ma Anila no, non avrebbe mai potuto farcela. Era una bella bambina, ancora troppo piccola, e anche se era molto piccola, se fosse caduta nelle mani sbagliate avrebbero potuto farle di tutto, violentarla e portarla in Libia dove c’era un fiorente giro di prostituzione minorile. Proprio come era successo a molte delle giovani «colleghe» di Carla. Che, sconvolta, cominciò a lavorare sempre più duramente. Voleva ripagare il prima possibile il suo debito, per tener buona l’organizzazione e infine liberarsi. Ma in cuor suo sapeva perfettamente che questa era solo un’illusione. Non sarebbe mai riuscita a estinguere il suo debito, il destino la voleva per sempre schiava. Non c’era via d’uscita.
Nel frattempo, Monique aveva provato in ogni modo a rintracciare i bambini in Niger. Si era mossa tramite le ambasciate e si era rivolta alla polizia. Ma niente. Di loro non c’era più traccia. Un silenzio profondo avvolse l’esistenza di Carla e nessuno sembrava poter far nulla.
Fino a quando, quasi un anno dopo, Carla fece irruzione nella stanza di Monique alla sede dei servizi sociali.
«Monique,» urlò concitata «questa mattina è arrivata una chiamata dall’Italia… Anila è viva. È lì.»
Published by arrangement with The Italian Literary Agency
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