La Camera va ai Democratici, il Senato no
Alle elezioni statunitensi di metà mandato i Repubblicani hanno perso il controllo di uno dei due rami del Congresso, e qualche conseguenza ci sarà
Alle elezioni di metà mandato statunitensi i Democratici hanno riconquistato la maggioranza alla Camera con un margine molto ampio, mentre i Repubblicani l’hanno consolidata al Senato, come da previsioni dei sondaggi. È un risultato significativo, anche perché arriva in un momento di grande crescita economica del paese, e quindi di relativo vantaggio del Partito Repubblicano al governo: avrà conseguenze sull’agenda legislativa del presidente Donald Trump, farà parlare della possibilità di impeachment e condizionerà anche la campagna elettorale per la Casa Bianca nel 2020.
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Quella per la Camera era l’unica elezione nazionale di questo voto: l’unica cioè a cui potessero votare tutti i cittadini americani, collegio per collegio. I Democratici dovrebbero ottenere circa 230 seggi (ne controllavano 193), contro i circa 200 dei Repubblicani (che ne controllavano 235), e hanno guadagnato seggi in posti in cui nel 2016 erano stati sconfitti da Trump, dal Midwest al sud. Nel computo totale del voto nazionale, in questo momento le stime attribuiscono ai Democratici un vantaggio di circa 8 punti percentuali sui Repubblicani, che senza il ridisegno strumentale dei collegi elettorali da parte di molti governatori Repubblicani si sarebbe tradotto in ancora più seggi conquistati.
Tra i Democratici sono state elette anche la più giovane deputata di sempre (Alexandria Ocasio-Cortez, 29 anni, a New York) e la prima deputata musulmana nella storia degli Stati Uniti (Rashida Tlaib, in Michigan). Più in generale, secondo le prime stime le donne hanno composto il 52 per cento dell’elettorato e hanno votato per i candidati Democratici in gran maggioranza (+20%). Mai così tante donne si erano candidate a un’elezione, e il risultato è che per la prima volta alla Camera ci saranno più di 100 deputate.
La principale conseguenza di questo risultato riguarda l’agenda legislativa del presidente Trump, e quello che resta da mantenere delle sue promesse elettorali. Nel sistema politico statunitense, perché una legge venga approvata deve essere votata nella stessa forma da Camera e Senato, salvo casi eccezionali: questo vuol dire che per i prossimi due anni Trump sarà costretto a convincere almeno alcuni dei suoi avversari per far approvare qualsiasi legge, e i Democratici non sembrano disposti a fare grandi concessioni. Inoltre, la Camera ha il potere di aprire indagini parlamentari, ottenere atti e documenti interni del governo e chiamare a testimoniare funzionari dell’amministrazione, cosa che può distrarre e infastidire molto la Casa Bianca.
Infine, e questa è una circostanza rarissima nella politica statunitense, una parte consistente dei parlamentari e degli elettori del Partito Democratico pensa che Donald Trump vada rimosso dalla Casa Bianca attraverso l’impeachment. La procedura di impeachment è interamente politica, prescinde da qualsiasi eventuale inchiesta giudiziaria in corso, e riguarda solamente il Congresso: può essere avviata dalla Camera con un voto a maggioranza semplice, quindi ora teoricamente con i soli voti dei Democratici (perché la procedura si concluda con la rimozione del presidente serve invece un voto dei due terzi del Senato, cosa mai avvenuta nella storia statunitense).
Al Senato i Repubblicani hanno consolidato la loro maggioranza, ma la situazione era del tutto diversa. Si votava solo in un terzo degli stati americani: il mandato dei senatori dura sei anni, e il Senato si rinnova per un terzo ogni due anni; gli stati in cui si votava per il Senato in queste elezioni erano tendenzialmente molto più conservatori della media del paese; i Democratici dovevano difendere molti più seggi dei Repubblicani. I Repubblicani hanno conquistato tre seggi prima occupati dai Democratici, che hanno perso di pochissimo in Texas, dove Beto O’Rourke è arrivato molto vicino al senatore Repubblicano uscente, Ted Cruz, e hanno conquistato il seggio del Nevada.
Si è votato anche per altre elezioni importanti che non riguardavano il Congresso, per esempio per un referendum – approvato – sull’uso ricreativo della marijuana in Michigan, e per i governatori di 36 stati. In Florida e Ohio, gli stati più importanti in ballo, hanno vinto i candidati dei Repubblicani, che già governavano; in Illinois, Kansas, Maine, New Mexico, Wisconsin e Michigan, dove governavano i Repubblicani, hanno vinto i candidati dei Democratici. In Georgia il candidato Repubblicano è avanti di poco e la candidata Democratica sembra voler chiedere di ricontare le schede.
In Florida, inoltre, è stata approvata con un referendum una legge che renderà automatica la restituzione del diritto di voto ai condannati che hanno scontato la propria pena. La Florida era uno dei quattro stati rimasti a prevedere una legge del genere, che di fatto escludeva 1,6 milioni di persone – molte delle quali appartengono a una minoranza etnica – dal processo elettorale. La proposta è passata col 64 per cento di voti favorevoli (il quorum era stato fissato al 60 per cento). Per il resto, in Alabama, West Virginia e Oregon si è votato per inserire nelle costituzioni dei tre stati degli emendamenti contro l’aborto. In Alabama e West Virginia sono stati approvati, mentre in Oregon l’emendamento è stato respinto.