Le tre scommesse di Trump sull’Iran
Il presidente statunitense spera di ottenere tre cose dalla reintroduzione delle sanzioni, diventata effettiva oggi, ma potrebbe mancare l’obiettivo più importante
Lunedì sono rientrate ufficialmente in vigore tutte le sanzioni all’Iran che gli Stati Uniti avevano cancellato dopo la firma dell’accordo sul nucleare iraniano, nel 2015, negoziata quando ancora alla Casa Bianca c’era Barack Obama. Un primo gruppo di sanzioni era stato reintrodotto ad agosto e aveva colpito tra le altre cose il settore delle automobili e quello degli aerei; oggi è toccato a tutte le restanti, incluse quelle dirette contro l’industria energetica e la banca centrale dell’Iran, che ci si aspetta avranno un effetto devastante sull’economia iraniana dei prossimi anni.
La reintroduzione delle sanzioni statunitensi all’Iran era diventata inevitabile dopo la decisione di Trump del maggio scorso di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo firmato da Obama, nonostante gli ispettori internazionali non avessero riscontrato alcuna violazione dei termini dell’intesa. Trump aveva sempre definito l’accordo «orribile», sostenendo insieme a molti altri Repubblicani che contenesse troppe concessioni all’Iran e che fosse svantaggioso per gli Stati Uniti. Quello che si chiedono però oggi diversi osservatori e analisti è: cosa vuole ottenere Trump con la reintroduzione delle sanzioni? Qual è il suo obiettivo?
Il giornalista David Sanger ha scritto sul New York Times che con la reintroduzione delle sanzioni Trump sta facendo tre scommesse: che l’Iran decida di non riavviare il processo di arricchimento dell’uranio, bloccato con l’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare e necessario per la produzione di un’arma atomica; che i paesi europei firmatari dell’accordo e critici verso Trump abbandonino anch’essi l’accordo, cosa che finora si sono rifiutati di fare; e, più importante, che il regime iraniano crollerà sotto la pressione economica delle sanzioni e che a quel punto l’Iran sarà costretto a rinegoziare un nuovo accordo molto più favorevole agli Stati Uniti: «Vogliamo restaurare la democrazia», ha detto il segretario di Stato Mike Pompeo la scorsa settimana, auspicando apparentemente un cosiddetto “regime change“, un cambio di regime nel paese.
Trump potrebbe vincere le prime due scommesse, ha scritto Sanger citando le opinioni espresse da molti esperti negli ultimi mesi, ma non la terza, che sarebbe il fine ultimo della reintroduzione delle sanzioni.
L’Iran infatti potrebbe decidere di non far ripartire il processo di arricchimento dell’uranio, lasciando aperta la possibilità di continuare ad avere rapporti commerciali almeno con i paesi europei e con gli altri firmatari dell’accordo, che comunque ad oggi rimane in piedi.
Trump potrebbe anche riuscire a impedire che le aziende europee continuino a fare affari con l’Iran, nonostante i loro governi siano di opinione contraria. L’Unione Europea sta cercando da tempo di trovare soluzioni per permettere alle sue aziende di non essere penalizzate dalle sanzioni di Trump, finora però senza grande successo. Per esempio ha riattivato il cosiddetto “blocking statute”, un sistema che l’Europa usò già negli anni Novanta per neutralizzare gli effetti extraterritoriali delle sanzioni americane sulle società europee che volevano investire in Libia, Iran e Cuba, tutti paesi allora presi di mira dagli Stati Uniti. La UE, ha scritto il Financial Times, sta anche negoziando la creazione di un «canale speciale» per salvaguardare il commercio con l’Iran senza subire le ire statunitensi, ma mancano ancora diversi dettagli cruciali: non c’è ancora accordo su quale paese ospiterà questo ente – e non ci sono molti volontari, diciamo – e su quando partirà il progetto. Nel frattempo le principali società energetiche europee, tra cui la francese Total e l’italiana ENI, hanno annunciato che rispetteranno le sanzioni al di là di quello che si possa inventare l’UE, perché lo vedono come l’unico modo per proteggere i loro affari.
Per quanto riguarda la terza scommessa, l’impressione è che Trump non riuscirà a ottenere quello che vuole, cioè mettere così tanto in crisi il governo iraniano da costringerlo a negoziare un nuovo accordo e creare le condizioni per un “regime change”.
Richard Haass, presidente del think tank Council on Foreign Relations, ha detto al New York Times: «Non c’è niente nella storia delle sanzioni che suggerisca che queste misure possano obbligare un paese a fare qualcosa di grande e drammatico. E quello iraniano è un governo che difficilmente vuole essere visto come costretto a fare qualcosa. Va contro il DNA della rivoluzione iraniana», cioè la rivoluzione che nel 1979 portò al potere in Iran i religiosi e da cui nacque l’attuale struttura politica e istituzionale del paese. Come avevano già osservato molti esperti negli ultimi mesi, l’accordo sul nucleare iraniano aveva favorito la frangia più moderata del regime, guidata dal presidente Hassan Rouhani, e aveva danneggiato quella più conservatrice, guidata dalla Guida suprema Ali Khamenei. La reintroduzione delle sanzioni sembra poter fare il gioco degli ultraconservatori, quelli che da sempre sono più contrari a qualsiasi dialogo con gli Stati Uniti e l’Occidente in generale: sembra quindi difficile, almeno nel breve periodo, che le sanzioni imposte da Trump possano stimolare grandi cambiamenti nella politica iraniana.