Quelli che vivono nei boschi
C'è chi lo fa per scelta e chi per necessità, da solo o in comunità: un film nei cinema da giovedì racconta una di queste storie
Dall’8 novembre sarà nei cinema italiani Senza lasciare traccia: il film, tratto da un libro ispirato a una storia vera, parla di un padre, ex soldato, e della figlia di 13 anni che vivono in un bosco di Portland, in Oregon. Ci vivono per necessità ma anche un po’ per scelta e difficoltà nell’adattarsi all’alternativa. Senza lasciare traccia parla anche di come, a un certo punto, padre e figlia siano però costretti ad adattarsi a uno stile di vita più convenzionale e dei problemi che ne derivano. Guardandolo, è probabile che oscillerete spesso tra il pensiero che quella vita – nel bosco, con poco – sia una libera scelta e la considerazione che invece sia una dolorosa privazione, soffermandovi su quello che si perde o si guadagna, vivendo in quel modo.
Nel mondo e in Italia ci sono tante storie di persone che vivono o hanno vissuto nei boschi, il più possibile in modo autosufficiente e con i minori contatti possibili con il resto del mondo. Ne abbiamo scelte alcune, tra le più note o peculiari, per provare a capire chi lo fa o lo ha fatto, e perché.
Per iniziare, esistono comunità di persone che scelgono di vivere con lo stretto indispensabile e poco più. Negli Stati Uniti c’è ad esempio la comune di Wild Roots, in North Carolina. Come spiegò nel 2017 il National Geographic, Wild Roots si sostiene vendendo sidro di mele e si basa su tre principi: «La vita libera, il rifiuto degli sprechi e l’apprendimento costante». L’uomo che ci vive da più tempo, circa dieci anni, si chiama Tod (rifiuta di identificarsi con un cognome): dice di aver scelto Wild Roots per allontanarsi dal «grasso di una ridicola società del surplus». Tod ha raccontato che all’inizio, circa quindici anni fa, i fondatori di Wild Roots avevano pensato di nutrirsi solo dei «frutti della terra», ma che poi, ritenendo l’idea troppo «naïve», abbiano iniziato a mangiare anche carne: in certi casi anche quella donata da cacciatori che passano da quelle parti. Una volta a settimana, qualche abitante di Wild Roots prende un camioncino e va in città, per fare acquisti necessari, ma anche per andare in biblioteca e sentire i familiari.
Di altre comunità di questo tipo si occupò, nel 2014, il fotografo Antoine Bury, per il suo progetto Scrubland:
«Ho viaggiato con l’intento di conoscere donne e uomini che hanno fatto una scelta di vita radicale, lontana dalle città, desiderosi di abbandonare uno stile di vita basato sulla prestazione, l’efficienza e il consumo. Senza un percorso prestabilito, guidato da ciascun incontro e dal caso, il viaggio è diventato per me una specie d’esperienza di iniziazione in queste famiglie. Ritengo che le varie esperienze che ritraggo non debbano essere considerate da un punto di vista politico, ma principalmente come un cambiamento di esperienze immediate e quotidiane».
In Italia esistono diverse comunità di questo tipo. Alcune preferiscono non finire sui giornali, per non diventare troppo note e visitate, e quindi un po’ meno isolate di prima; altre scelgono invece di farlo. In certi casi, soprattutto negli ultimi anni, si parla anche di ecovillaggi. Nel 2016, su Internazionale, Valentina Pigmei li definì così: «Un gruppo di persone che hanno scelto di lavorare insieme con l’obiettivo di un ideale o una visione comune». La più famosa e una delle più longeve comunità di questo tipo è la Comunità degli Elfi, che vive sugli Appennini, in provincia di Pistoia. È fatta da più di dieci nuclei, alcuni distanti anche più di un’ora di cammino l’uno dall’altro, e gli abitanti sono più di cento. Esiste dagli anni Ottanta, non c’è elettricità e per scaldarsi si brucia legna. I soldi esistono e a volte si usano per comprare cose fuori dalla comunità, ma tutto viene diviso. Esiste anche la scuola, autogestita. Nel 2016, una donna che ci aveva vissuto per anni spiegò però alla Nazione che qualcosa stava cambiando:
«Al di là dei pannelli solari, che c’erano già quando io vivevo lì, inizialmente cercavano di essere “duri e puri”, completamente staccati dalla società per non farsi coinvolgere da essa e dai suoi rischi. Prima era proibito l’uso di cellulari, oggi invece ne trovi molti in carica. L’aspetto positivo, però, è un profondo lavoro sulla comunicazione che prima non c’era, per riuscire a stare bene insieme: al posto del “bastone della parola”, che si utilizzava per parlare in cerchio, oggi si pratica il co-ascolto, tirando fuori sentimenti ed emozioni, o ancora il “cerchio degli apprezzamenti”, dove si cerca di riconoscere la bellezza di ciascun componente della comunità».
Oltre a chi sceglie di vivere lontano dalla società, ma in piccole comunità, c’è anche chi sceglie di vivere da solo. Di alcuni casi parlò, alcuni anni fa, la serie-documentario Madrenatura. Mattia – da Calvisano, in provincia di Brescia – mostrò la roulotte in cui viveva da un paio d’anni in un bosco in provincia di Macerata, su «un pezzetto di terra» comprato con «due soldi risparmiati col lavoro». «Mi sento un po’ Into the Wild», disse; ma spiegò di avere comunque amici nelle vicinanze.
C’è anche un documentario, Voci dal silenzio, che parla di eremiti italiani: racconta la loro «esperienza ascetica» e, spiegano i registi che girarono per quattro mesi l’Italia in camper, offre «molteplici spunti di riflessione sulla natura umana, sulle insidie del mondo contemporaneo e sui rapporti che l’anacoreta, e più in generale l’uomo, tesse con il divino».
Quelli che decidono di vivere da soli ci sono anche all’estero, ovviamente. Non sempre hanno una lunga barba bianca: «Ho 16 anni e ho scelto di vivere da solo in mezzo al nulla», raccontò nel 2016 Zeki Basan, al Guardian. Basan spiegò che viveva sull’Isola di Skye, al largo della Scozia, in un tepee.
«Dormo su vecchie brandine che mi ha dato mio nonno, con due vecchie coperte dell’esercito e qualche pelle d’animale. Di sera accendo un fuoco, tolgo pelli agli animali o lavoro il legno. Tengo libri e vestiti in un vecchio baule di metallo. Lavo i vestiti nel fiume e mi ci lavo anche io, nel fiume. […] Le persone mi chiedono se mi manca internet, ma non l’ho mai usato molto. Sono socievole, ma mi piace anche stare con me stesso».
Esistono poi storie di persone che scelgono di vivere nei boschi spostandosi da uno all’altro. Nel 2017 sempre il Guardian raccontò la storia di Peter e Miriam Lancewood. Lui ha più di sessant’anni, è neozelandese ed è stato pastore, arboricoltore e insegnante; lei ne ha un po’ più di 30 e prima di cambiare vita faceva anche lei l’insegnante. Si conobbero in India più di dieci anni fa e nel 2010 decisero di lasciare tutto e vivere all’aperto, prima in Nuova Zelanda e poi in Europa, spostandosi con la loro tenda. Lui dice di essere molto bravo a cucinare, lei – che prima era vegetariana – si occupa di cacciare e trovare cibo. La giornalista che li intervistò andò a trovarli in Bulgaria, verso le 5 del pomeriggio. Chiese loro cosa avessero fatto quel giorno e loro risposero: «Non molto, aspettavamo te». Dell’Europa dissero che era più difficile, rispetto alla Nuova Zelanda, trovare posti in cui essere davvero isolati. Ma aggiunsero che, per fortuna, erano «dei professionisti nello sparire nei boschi». A chi chiede loro dove trovino i soldi, rispondono: «Ne avevamo messi da parte un po’, e poi viviamo con tremila euro l’anno – quasi solo per il cibo». Lei ha raccontato parte della loro storia nel libro Woman in the Wilderness.
Ma c’è anche chi l’isolamento lo vuole più estremo. Come Christopher Knight: nel 1986 mollò casa e lavoro e andò a vivere in un bosco nel Maine, negli Stati Uniti. Ne uscì solo dopo 27 anni passati a vivere in completo isolamento e a sopravvivere compiendo centinaia di furti nelle abitazioni usate come case per le vacanze. Nel 2013, intorno al Moosehead Lake, fu arrestato. Stava rubando del cibo in un edificio dove era ospitato un campo estivo. Fu accusato di furto con scasso, e portato in prigione.
La storia di Knight è stata raccontata per la prima volta nel libro The Stranger in the woods, uscito nel 2017 e scritto da Michael Finkel, l’unico giornalista con cui Knight abbia accettato di parlare (se il nome vi suona familiare è perché nel 2015 Jonah Hill lo ha interpretato nel film True Story). Quando Finkel gli chiese se avesse imparato qualcosa di importante, rimanendo da solo per tutti quegli anni, Knight rispose soltanto: «Bisogna dormire abbastanza». Non ci sono informazioni recenti su dove sia e cosa faccia ora.
Ma esiste anche chi nei boschi ci vive per necessità. Nel 1992 il New York Times raccontò la storia di un po’ di famiglie che, rimaste senza casa, andarono a vivere in un bosco vicino a Eugene, in Oregon. In anni più recenti lo hanno fatto molti altri, anche altrove: in comunità o da soli, spesso nascondendosi. Nel 2016 Vice parlò di senzatetto che stavano «occupando» le foreste americane.
C’è poi la storia vera da cui è tratto Senza lasciare traccia: nel 2004 un uomo, un veterano di guerra, e sua figlia furono trovati a Forest Park, un grande parco di Portland. Ci avevano vissuto per quattro anni; furono presi, portati in città e fu data loro una casa. Uno dei poliziotti che si occupò di loro disse che «sembrava che la vita di ognuno dei due girasse intorno a quella dell’altro». Si scoprì che la ragazza era più istruita e colta dei suoi coetanei che erano andati a scuola (un po’ in stile Captain Fantastic, per intenderci). Dopo qualche settimana padre e figlia sparirono e da allora non si sa niente di loro. Peter Rock, autore del libro da cui è tratto il film, ha detto che si appassionò alla storia e aspettò per anni che i due venissero ritrovati. Non successe e decise di immaginarsi lui una storia sul dopo, che è anche quella raccontata nel film.