Chi decide a che genere appartenere
L’Economist dice che non dovremmo dare troppo per scontato che sia giusto che ognuno possa deciderlo per sé
Nei paesi più avanzati, l’ultima frontiera delle lotte politiche per i diritti civili riguarda le persone transgender, cioè le persone che si riconoscono nel genere opposto al loro sesso biologico o in un genere intermedio tra il maschile e il femminile. Mentre la parola “sesso” indica esclusivamente l’anatomia di una persona, infatti, il “genere” indica sia la percezione che ciascuno ha di sé in quanto maschio o femmina (cioè l’identità di genere) sia il sistema socialmente costruito intorno a quelle stesse identità (cioè il ruolo di genere). Per secoli le persone transgender hanno subìto discriminazioni e persecuzioni, a volte fino alla sterilizzazione forzata, ma negli ultimi anni la loro condizione in alcuni paesi è un po’ migliorata: hanno ottenuto visibilità e alcuni diritti, mentre è nato un dibattito sulle tante diversità di genere esistenti (sul Post abbiamo raccolto le principali qui).
Ultimamente se ne sta riparlando molto negli Stati Uniti, dove il presidente Donald Trump sta smantellando molti passi avanti fatti dall’amministrazione Obama, e nel Regno Unito, dove a luglio il governo ha avviato una consultazione per riformare il “Gender Recognition Act”, la legge del 2004 che regola il cambiamento legale di sesso. Al momento è necessario che un medico abbia diagnosticato la disforia di genere, che indica il disagio provato da chi non si riconosce nel sesso dei suoi organi genitali, e aver vissuto per due anni nei panni del sesso opposto (in Italia nel 2015 la Corte Costituzionale ha stabilito che per il cambio di sesso all’anagrafe non è più necessario un trattamento chirurgico, come previsto in precedenza: si deve fare richiesta al tribunale, che assegna un consulente, solitamente uno psichiatra, che deve accertare il fondamento della richiesta).
Tra le proposte di revisione discusse nel Regno Unito ce n’è una per consentire alle persone di determinare nei documenti la propria identità di genere qualora non coincida con quella del sesso biologico, senza il bisogno di un certificato da parte di un medico. La proposta ha aperto un dibattito tra chi è favorevole per motivi pratici ed economici (evitare le lunghe liste di attesa in tribunale e dagli psicologi) oltre che ideali (non è compito dello Stato ingerire in una sfera così privata) e tra chi invita a maggiori cautele, come ha fatto l’Economist in un editoriale di qualche giorno fa.
Dopo aver ricordato le sue note e storiche posizioni a favore dei diritti delle persone omosessuali e transgender, l’Economist invita però a prendere in considerazione le conseguenze di una simile proposta che, pur ampliando i diritti delle persone transgender, potrebbe danneggiare altre categorie di persone bisognose di protezione. Cita per esempio il caso delle carceri riservate a donne e bambini per proteggerli dagli uomini, che commettono gran parte dei reati sessuali; la nuova legge consentirebbe a un uomo di identificarsi ufficialmente come donna per infilarsi in queste aree e compiere più agevolmente altri crimini (com’è accaduto per esempio un anno fa in un carcere dello Yorkshire).
Chi non la pensa come l’Economist fa invece presente che la situazione delle carceri è stata affrontata in diversi modi dai paesi che hanno già introdotto l’autocertificazione per le persone transgender, come l’Argentina nel 2012, la Danimarca nel 2014, e Irlanda e Malta nel 2015. In Argentina per esempio le persone transgender sono incarcerate in spazi appositi insieme agli omosessuali; in Irlanda sono incarcerati insieme alle persone del loro stesso sesso biologico; a Malta stanno in carcere con le persone del sesso in cui si identificano e le guardie carcerarie hanno il compito di prendere alcune precauzioni in caso di necessità – come modificare gli orari delle docce – per garantire la sicurezza di tutti.
Un’altra preoccupazione dell’Economist è che gli uomini violenti potrebbero approfittare della nuova legge anche fuori dal carcere, avendo accesso ai luoghi riservati alle donne, mettendole in pericolo e convincendo altre a non frequentarli; alcune potrebbero appartenere a minoranze etniche e religiose, e in quel caso sarebbero doppiamente discriminate. È un’obiezione simile a quella di chi si oppone ai bagni usati sia dagli uomini che dalle donne. Chi non è d’accordo dice che è qualcosa che un uomo con cattive intenzioni potrebbe fare già ora, e che è un’eccezione che non dovrebbe privare una maggioranza di un diritto.
Un altro timore dell’Economist riguarda i bambini. Alcune scuole, scrive, hanno iniziato a insegnare ai bambini a esplorare la propria identità di genere attraverso l’introspezione e non attraverso l’anatomia. Ai bambini viene insegnato che alcuni valori sono convenzionalmente identificati come maschili e altri come femminili, con il rischio che si identifichino con un genere in base ai vecchi stereotipi (spingendo una bambina vivace e competitiva a identificarsi con il maschile, e un bambino amorevole e ubbidiente con il femminile). Il rischio, scrive sempre l’Economist, è che alcuni bambini che «potrebbero crescere come gay vengano incanalati in un’identità transgender», anche se si tratta di due piani molto diversi: la prima ha a che fare con l’orientamento sessuale, cioè riguarda il sesso delle persone da cui si è sessualmente attratti, la seconda riguarda appunto l’identità di genere.
Inoltre i bambini che si definiscono transgender iniziano la terapia ormonale e possono accedere al riassegnamento di sesso a età sempre più giovani, nonostante le prove che alcuni nel tempo potrebbero cambiare idea.
L’Economist specifica che l’intento della proposta è una nobile difesa delle persone transgender, ma aggiunge che trattandosi di un cambiamento importante dal punto di vista legale è necessario ragionare in modo asettico e razionale, bilanciando gli interessi dell’intera società. Per prima cosa, dice, non ci sono abbastanza dati e studi: molte identità di genere non sono state sufficientemente studiate. In secondo luogo, scrive, l’atmosfera attuale non è serena e la proposta è diventata un campo di battaglia ideologico, dove chi non si schiera a priori per i diritti delle persone transgender è accusato di essere illiberale e conservatore: «Chi mette in discussione questa nuova ortodossia è accusato di transfobia». E aggiunge anche che «la ricerca sui danni provocati da una transizione troppo precoce viene impedita. Gli studiosi che esplorano cosa comporta ridefinire le categorie sessuali affrontano campagne che ne chiedono il licenziamento».
La proposta dell’Economist è rendere meno «lento e burocratico» il procedimento in vigore per ottenere il cambio legale di sesso ma di mantenerne lo schema, che reputa «giusto». Lo Stato dovrebbe anche aumentare la protezione legale contro le molestie e le discriminazioni per tutti, indipendentemente dall’identità di genere. Dovrebbe infine introdurre più “luoghi terzi”, cioè zone neutrali dal punto di vista del genere, da affiancare a quelle riservate a un unico genere.