La legge del Friuli Venezia Giulia che segue il “metodo Lodi”
Perché rende molto difficile per gli stranieri non comunitari ottenere case popolari, racconta un'inchiesta video di Repubblica
Il 29 settembre il Friuli Venezia Giulia ha approvato una legge regionale che cambia requisiti e regole per l’assegnazione delle case popolari. L’impressione è che la legge segua il “metodo Lodi“, perché è stata scritta per rendere molto difficile l’accesso alle case per gli stranieri extracomunitari (anche se nel caso di Lodi si parlava di una delibera comunale sulle mense scolastiche). La regione Friuli Venezia Giulia è governata da Massimiliano Fedriga, della Lega Nord. Fedriga ha detto di non volere l’accoglienza diffusa e di voler dare «priorità ai cittadini italiani per l’accesso alle case popolari». La questione è stata raccontata nel dettaglio da Repubblica, in una video-inchiesta di oltre 10 minuti realizzata da Andrea Lattanzi.
La legge approvata a fine settembre modifica una legge del 2016 sull’edilizia popolare sul modo in cui le Ater, le Aziende territoriali per l’edilizia residenziale, assegnavano le case a chi dimostrava di averne bisogno. La nuova norma mette insieme proposte fatte da esponenti di Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega Nord: dice che ora, per ottenere una casa o il contributo per l’acquisto di una casa, bisogna essere residenti in regione da almeno 5 anni, mentre i cittadini extracomunitari dovranno presentare «la documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel paese di origine e nel paese di provenienza».
La regola sugli anni – cinque anziché due – è considerata legittima, seppur penalizzi molto più di prima chiunque non viva in Friuli Venezia Giulia da almeno cinque anni: esiste anche in altre regioni, come ad esempio in Lombardia e in Toscana (dove c’è dal 2015, con simili regole anche sulla presentazione dei documenti), e finora la Corte costituzionale ha bocciato per «irragionevolezza e mancanza di proporzionalità» solo proposte di alzare il limite a 10 anni, come provò a fare la Liguria nel 2017. È una regola che, tra l’altro, penalizza sia gli italiani che gli extracomunitari. Antonio Ius, direttore generale dell’Ater Trieste, ha detto a Repubblica che se la nuova norma fosse stata applicata negli ultimi due anni, delle 7mila richieste approvate non ne sarebbero state ammesse circa 800: 80 per cittadini non italiani dell’Unione Europea, 414 per cittadini extracomunitari, 310 per cittadini italiani.
La norma sulla presentazione di documenti che attestino che non si possiedono case all’estero è molto più controversa, perché chiede agli stranieri di dimostrare qualcosa di difficilmente dimostrabile, come già successo nel caso di Lodi e in un altro simile in Veneto: spesso, per esempio nel paese di provenienza, non esiste un documento che provi che una persona non è proprietaria di una casa.
L’ASGI, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, ha spiegato che la legge è in contrasto con la normativa vigente e che «non tiene conto che la proprietà di un alloggio qualsiasi nel paese da cui si è emigrati, se deve sicuramente rilevare ai fini del reddito, non può pregiudicare in assoluto il diritto al sostegno abitativo nel luogo ove si è emigrati». Ed è soprattutto discriminatorio perché «se è vero che il divieto viene meno qualora il richiedente produca un certificato di inagibilità dell’alloggio, per il migrante sarà normalmente impossibile procurarsi detto certificato, spesso non previsto dalla normativa del paese».
Tra l’altro, spiega l’ASGI, esiste già un documento – «che non è una autocertificazione, ma un’attestazione pubblica del livello di reddito e di patrimonio» – che stabilisce se qualcuno, italiano o straniero, abbia diritto o meno all’assistenza offerta dagli Ater: è l’ISEE, l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente. E, spiega ancora l’ASGI, «non è consentito alla singola Regione pretendere ulteriori integrazioni al procedimento previsto».
In più, la legge del Friuli Venezia Giulia parla di documenti riguardanti il “paese di origine e di provenienza: una piccolezza (la “e” al posto della “o”) che, secondo l’ASGI, «imporrebbe al migrante una duplicazione della documentazione, spesso riferita a paesi nei quali non soggiorna più da decenni o riferita a paesi nei quali non ha alcun riferimento (si pensi al migrante di “origine” centrafricana, ma “proveniente” dalla Libia)».