Perché ci piace avere paura
Lo spavento ci permette di disattivare per un po’ alcune aree del cervello, come succede con la meditazione, e dopo un grande – finto – allarme siamo spesso più rilassati
Margee Kerr è una professoressa di sociologia dell’università di Pittsburgh, in Pennsylvania: da almeno dieci anni si occupa soprattutto del perché molte persone traggano piacere dalla paura e l’Atlantic ha parlato di lei come di una “specialista dello spavento“. Kerr ha raccontato su The Conversation di aver studiato, insieme al neuroscienziato cognitivo Greg Siegle, le aspettative e le reazioni che 262 persone avevano avuto prima e dopo aver pagato per visitare la ScareHouse di Pittsburgh: una casa degli orrori, di quelle piene di cose che fanno paura, con attori pagati per far spaventare la gente. La risposta ha a che fare con il modo con cui il nostro corpo risponde a situazioni di pericolo, ma non solo.
Kerr ha spiegato di aver installato un laboratorio mobile nel sotterraneo della ScareHouse, in cui i visitatori pagano dai 20 ai 40 dollari per sottoporsi a varie esperienze, tutte paurose e tutte della durata di qualche decina di minuti. Ha quindi fatto compilare a 262 visitatori che già avevano preso un biglietto un questionario sulle loro aspettative e su come si sentivano. Ha chiesto loro di fare la stessa cosa dopo il giro nella ScareHouse. Ha anche sottoposto 100 partecipanti a una sorta di elettroencefalografia in movimento, per provare a capire cosa succedeva nel loro cervello.
Lo studio, pubblicato da APA PyschNet, ha mostrato che dopo l’esperienza i visitatori stavano meglio e si sentivano addirittura più riposati. Quelli che dicevano di stare meglio erano quelli che avevano descritto l’esperienza come più intensa e paurosa. Alcuni hanno anche detto di avere la sensazione di conoscersi meglio. Gli elettroencefalogrammi hanno anche mostrato che le persone che si erano divertite ad avere paura erano riuscite – semplificando un po’ – a “spegnere” una parte del loro cervello, in modo paragonabile a quanto succede a chi fa meditazione. Kerr ha scritto: «I risultati mostrano che [per il cervello] andare in una casa degli orrori è anche simile a correre per cinque chilometri o arrampicarsi su una parete di roccia. C’è un iniziale senso di incertezza, un’attivazione del corpo, una sfida a spingersi oltre – e infine la soddisfazione, dopo che tutto è finito».
Ogni persona che si trova in una situazione percepita come paurosa o pericolosa attiva quella che in inglese è definita modalità “fight or flight“, combatti o scappa. È quella che usano anche certi animali quando devono decidere se reagire o fuggire davanti a un potenziale pericolo e, nel caso di esseri umani, si parla anche di reazione acuta da stress: è quella che mette in una sorta di stand-by alcune aree del cervello (come quella dedicata a rimuginare sulla litigata con il collega) e ne attiva e potenzia altre. Quelle “di emergenza” che servono a prendere velocemente delle decisioni importanti o delle finte decisioni importanti: come cosa fare se un attore-zombie ti ha appena appoggiato la mano sulla spalla.
Se controllata, come nel caso di un film horror, o provata in ambienti protetti, l’attivazione della modalità “fight or flight” permette di rilassarsi, di dimenticare altri problemi e mettere tutto in prospettiva: se sei terrorizzato da uno zombie (anche se un attore-zombie) che ti appoggia la mano sulla spalla, quella litigata con il collega diventa improvvisamente meno importante. Nel caso di un film horror o di una casa degli orrori, il merito è della sospensione dell’incredulità: il cervello sa che è tutto finto, ma decide di far finta di crederci, attivando il corpo a comportarsi “come se”. La differenza principale è che, in una vera situazione di pericolo, ci si limita ad avere paura e pensare a cosa fare, mentre in una finta situazione di paura ci si può permettere di analizzare le risposte del proprio corpo e, in certi casi, di trarne piacere.
Avere paura, anche se per finta, non piace però a tutti. Come ha spiegato lo psicologo e psichiatra David Zald, «uno degli ormoni rilasciati mentre si prova paura è la dopamina, e alcune persone ne rilasciano molta più di altre». Alcune persone non hanno quelli che Zald definisce “i freni alla dopamina” ed è probabile che siano quelle che riescono a divertirsi avendo paura. Parlando con il National Geographic, Zald ha detto: «Pensate alla dopamina come alla benzina. Se la abbinate a un cervello che frena meno degli altri, avrete le persone a cui piace andare oltre certi limiti».
Kerr ha anche spiegato che le emozioni sono in effetti contagiose: «Ci sentiamo particolarmente legati alle persone con cui stavamo quando eravamo particolarmente eccitati. In questo caso l’ormone responsabile sembra essere l’ossitocina, che viene rilasciato quando siamo molto felici o spaventati e contribuisce a far sì che certi momenti restino più impressi nella nostra memoria.
È infine fondamentale che la paura sia finta. Perché, visto che le emozioni e persino le reazioni chimiche della paura finta sono simili a quelle della paura vera, è meglio non doversi anche preoccupare della propria incolumità o sopravvivenza. Come spiega Kerr, è quindi consigliabile «non perdersi di notte in un bosco, senza nessuno intorno».