In ricordo di un grande editor
A un anno dalla morte più di 50 tra scrittori e amici hanno ricordato Severino Cesari, cofondatore di Stile Libero, con un libro: il racconto di Concita De Gregorio
È passato un anno dalla morte di Severino Cesari, uno dei più importanti editor ed esperti di editoria italiani degli ultimi cinquant’anni, familiare a tutto il mondo dei libri e fondatore insieme a Paolo Repetti della collana Stile Libero di Einaudi. Per ricordarlo più di 50 amici e scrittori che hanno lavorato con lui hanno scritto dei brevi racconti che sono stati raccolti in un libro, pubblicato dalla scuola di scrittura Belleville: Maestro Severino. Quello che ci ha insegnato Cesari. Tra gli autori ci sono Niccolò Ammaniti, Daria Bignardi, Gianrico Carofiglio, Giancarlo De Cataldo, Concita De Gregorio, Diego De Silva, Carlo Lucarelli, Rosella Postorino, Paolo Sorrentino, Elena Stancanelli e Simona Vinci.
Cesari era nato a Città di Castello, in Umbria, il 30 novembre 1951, ed è morto dopo una lunga malattia, raccontata e condivisa da lui stesso in molti post su Facebook. Come spiega lo scrittore e blogger del Post Giacomo Papi nella prefazione al libro, Cesari
«fu tra i primi, cioè, a intuire la grande trasformazione che avveniva nella cultura italiana alla fine del Novecento, a comprendere il cedimento delle distinzioni tra basso e alto, pop e accademia, e a praticare questa intuizione con cura quotidiana, senza alcun compiacimento intellettuale, ma con identica curiosità, attenzione e rispetto, sia verso l’alto che verso il basso».
Maestro Severino sarà presentato giovedì sera, alle 18.30, a Roma, a palazzo Merulana: ci saranno Paolo Repetti, Giacomo Papi, Giancarlo De Cataldo, Concita De Gregorio ed Emanuele Bevilacqua. Un’altra presentazione sarà a Milano il 17 novembre, in occasione della fiera Bookcity, con Daria Bignardi e Giancarlo De Cataldo. Questo è il racconto contenuto nel libro di Concita De Gregorio, che con Stile Libero ha pubblicato quattro libri – l’ultimo è Cosa pensano le ragazze (2016).
Si intitola E tu cosa avresti fatto?.
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E tu cosa avresti fatto, se io ti avessi chiamato ora che sono le sette e un quarto di sera dell’ultimo giorno dell’ultimo rinvio – tassativo, questo – meno di dodici ore alla consegna comprese quelle della notte che certo, c’è ancora speranza perché sono le migliori, e ti avessi detto: Seve, io questa cosa non la so scrivere?
Tu cosa mi avresti risposto al telefono – prima ti avrei scritto: ti posso disturbare? e tu mi avresti scritto: non puoi disturbare, è impossibile che tu mi disturbi – se ti avessi detto: Non ci riesco. Ho provato ma è sempre tutto sbagliato. È poco, è troppo, è inutile. È patetico, mi irrita, mi fa incazzare non saperlo fare e allora insisto ma ho fumato troppo, anche oggi, Seve, e non sento aria nel petto e mi spavento.
Non devi fumare tanto, avresti detto.
Sì ma a parte il fumo. Sei d’accordo che questa cosa non la dobbiamo fare?, se non viene non deve venire e però bisogna dirglielo che non la facciamo, la aspettano e mi dispiace, abbiamo rinviato tanto e ora come si fa. Magari potresti dirglielo tu, che io non sono brava con le scuse. Li chiami tu, Seve?
Certo che li chiamo io, avresti detto. Ma ti sento in ansia, non devi, non c’è ragione. Senti: che ne dici se ci vediamo da Panella, fra mezz’ora, io scendo e faccio due passi, mi fa piacere. Puoi?
E allora ti avrei visto arrivare da lontano con il basco e col sorriso (sai perché si chiama basco, sai che anche Nenni portava il basco in onore ai contadini baschi?) e avresti detto ma sì, se non diciamo niente a Emanuela un goccio di vino bianco lo posso bere anche io.
Poi mi avresti chiesto dei ragazzi (come sta P.? cosa fa L.? e il magnifico B. come si comporta? La ragazza? Mi stai dicendo che ha una ragazza? Certo, a ben pensare anche io, alla sua età…) e del lavoro, queste ultime puntate erano straordinarie, bisognerebbe pensare a un libro sulle storie minori, apparentemente minori perché pensa a Piovene, quanto manca un Piovene quanto sarebbe importante un libro così, e subito di seguito la politica, ma tu dunque cosa pensi possa accadere, ma come è possibile, che tempo scuro. E avremmo parlato della nuova traduzione di Moby Dick, e di questo esordio luminoso di questa ragazza così timida, così piccola e così colma di talento. E io ti avrei chiesto ma come stai, davvero, e tu me lo avresti spiegato. E ti avrei chiesto di finire di raccontarmi di quando eri finito all’ospedale in Turchia, e avresti di nuovo risposto: la prossima volta, quando andiamo a cena. Con più tempo.
E poi avremmo riso di cose da niente, avremmo parlato del quartiere nostro, della casetta e dei fiori e del tuo gatto. Io non avrei fumato mai, per farti piacere. Tu avresti bevuto un poco, per tenermi compagnia. E solo alla fine ti avrei chiesto: allora li chiami tu?
E tu avresti detto certo, ma dimmi meglio: qual è l’ostacolo? Cosa ti sembra di non riuscire a fare?
Io sarei stata in silenzio a cercare la risposta, e tu non avresti interrotto il silenzio che cerca. E poi ti avrei guardato negli occhi lunghi, orientali, ombreggiati e gentili e ti avrei detto: non voglio parlare di te nel passato. Non riesco a dire quello che è stato, riesco solo a pensare quello che è e che sarà.
Allora mi avresti messo una mano sulla mano, avresti usato la mano migliore per farlo, la tua più ubbidiente. Forse mi avresti fatto anche una carezza leggerissima, un principio di carezza e avresti detto: splendore, che sei. Perché tu mi chiamavi a volte luce, splendore e io ci credevo – che ci fosse in me qualcosa di lucente, ci credevo solo quando lo dicevi tu. E poi avresti battuto un piccolo colpo sul tavolo e avresti detto: ecco, allora questo dobbiamo fare. Scrivere di cosa stiamo leggendo ora, e di cosa stiamo pensando, e del libro che faremo a settembre, ma senza fretta dico settembre per dire, anche febbraio va bene.
E così ti avrei raccontato di questa scrittrice argentina pazzesca, quarant’anni, non tradotta ancora in Italia che scrive racconti vertiginosi di impressionante esattezza, te ne vorrei tanto leggere uno. Quello che si intitola Tela di ragno, per esempio. E tu mi avresti detto pensa quanto cammina ancora Borges dentro di noi, per la via di Cortázar e altre mille, e io ti avrei detto sì ma qui Borges è solo un’eco lontana, è come una Divina Commedia come un Don Chisciotte che puoi anche non averli letti ma da qualche parte dentro di te sono: è una lingua nuova, questa. È incredibile come possa cambiare una lingua nelle mani di chi la sa usare, può diventare ogni cosa. Leggimela, ma in spagnolo avresti detto. E poi avremmo parlato di Facebook, ancora, delle spie che ci spiano dei bugiardi che ci mentono, e tu avresti detto: hai ragione, è così, ma si può sempre essere gentili e onesti, non ti pare? Anche là dentro, gentili, e onesti. Perché tutto quello che serve è avere cura, prendersi cura del poco che riusciamo a toccare con le mani, e le mani che scrivono arrivano a occhi che leggono, anche là dentro, e se lo usi così – come se i corpi ci fossero, e ci sono – allora va bene. E alla fine, quando si fosse già fatta ora di cena, avresti detto: torniamo verso casa, ti accompagno? E io ti avrei detto: stai scherzando, ti accompagno io. E lungo il cammino, sempre lo stesso cammino, sempre sul marciapiede di destra, dopo il secondo isolato avresti chiesto: e il libro, hai cominciato? Io ti avrei sorriso, e contenta come sempre sono stata felice di farti le sorprese ti avrei detto: ho quasi finito, Seve. Ti saresti fermato di colpo, facendo un po’ di teatro: quasi finito, ma cosa dici? E ti avrei detto sì, quasi finito. Ora ti racconto. E te lo avrei raccontato tutto, fermi davanti al bar dell’angolo, il tuo bar preferito, per filo e per segno.
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