Dovremmo ripensare a come uccidiamo i pesci?
La scienza non è ancora sicura di quanto dolore provino, ma gli animalisti chiedono che vengano abbandonate alcune pratiche, specialmente negli allevamenti
L’ong animalista Essere Animali ha pubblicato un video che mostra diverse fasi del processo che porta un pesce dall’allevamento al banco di una pescheria, che in diversi casi sono giudicate disumane dall’associazione e da alcuni biologi. Il video, girato in acquacolture nel Centro e Nord Italia, mostra situazioni normali nelle acquacolture, ma che secondo alcuni esperti vanno ripensate. È una questione legata strettamente al dibattito sul fatto se i pesci provino dolore, sul quale non c’è ancora consenso scientifico.
Le trote, le orate e i branzini sono i pesci più allevati in Italia, perché i più richiesti nelle pescherie e nei supermercati. Secondo i dati di Essere Animali, il consumo annuo pro capite di pesce in Italia è arrivato a 25 chili, contro i 15 chili del 1990. È una tendenza globale, che ha fatto sì che negli ultimi decenni moltissime riserve ittiche siano state sfruttate eccessivamente, e che si sia sempre più diffusa l’acquacoltura, che nel 2013 ha superato la pesca come fonte di pesce per uso alimentare.
Come si può immaginare, però, il trattamento riservato ai pesci – sia a quelli pescati in mare che a quelli d’allevamento – ha standard molto diversi da quello sviluppato negli allevamenti bovini o avicoli, per evidenti ragioni legate alla percezione e alla sensibilità che storicamente l’uomo ha nei confronti dei pesci, molto diversa rispetto a quella dei mammiferi. Ma anche perché fino a un po’ di tempo fa si era sicuri che i pesci non provassero dolore.
Oggi c’è un po’ meno certezza, anche se – contrariamente a quanto viene talvolta sostenuto – la comunità scientifica non è ancora arrivata a un vero consenso. È d’altronde un tema difficile anche solo da mettere a fuoco, per le diverse interpretazioni che si possono dare al concetto di “dolore”. Il tema centrale è se i pesci abbiano un sistema nervoso sufficientemente complesso per provare dolore: negli ultimi anni ci sono stati studi scientifici che hanno sostenuto posizioni opposte, ed entrambe le fazioni sostengono che l’altra scelga di tenere conto solo delle prove che sostengono la propria tesi. Un’argomentazione usata spesso a favore della tesi secondo cui i pesci non provano dolore è che non sono animali coscienti, ma sono ormai decenni che gli studi sul cervello degli animali hanno dimostrato che la questione è più complessa di così: certi animali hanno una propria forma di coscienza e provano forme proprie di sofferenza, dolore e perfino emozioni.
Se e in che misura i pesci siano tra questi animali è ancora dibattuto, ma ci sono studi che sostengono che abbiano un’area del cervello dove processare gli stimoli del dolore, così come i recettori necessari per raccogliere questi stimoli. L’intelligenza e la socialità sono d’altronde tratti della vita dei pesci che sono stati approfonditi soltanto di recente, ed è normale che gli scienziati non siano ancora concordi sull’aspetto della percezione del dolore. Questo dibattito, già complesso di suo, è complicato dal fatto che esistono migliaia di specie di pesci, ciascuna con caratteristiche diverse e che con ogni probabilità almeno in parte reagiscono al dolore in maniera diversa.
Oltre alla questione del sovraffollamento delle vasche da allevamento, il tema principale del dibattito è soprattutto il modo in cui uccidiamo i pesci. Ne esistono diversi (solo alcuni mostrati nel video), che vanno dall’asfissia (tenere il pesce fuori dall’acqua) all’immersione in una vasca piena di ghiaccio, dall’aggiunta di anidride carbonica all’acqua all’eviscerazione. Sono metodi utilizzati in contesti diversi, ma sappiamo molto poco di come concretamente reagiscano i pesci a ciascuno di loro: se l’asfissia o l’utilizzo dell’anidride carbonica sono considerati i peggiori, non sappiamo bene per esempio che impatto abbia sui pesci l’uccisione nel ghiaccio.
Da quel poco che sappiamo, però, si crede che stordire un pesce con una botta in testa prima di ucciderlo sia un modo efficace per ridurne il dolore: nel video si vede un caso di applicazione della pratica, che normalmente non viene adottata perché scomoda e laboriosa. Ciononostante, il video sembra giudicarla una pratica crudele. In altre scene si vedono altri esempi di trattamenti che sarebbero considerati crudeli in altri tipi di allevamenti, ma che sono accettati in quelli ittici per i pochi studi sul loro reale impatto, come la legatura per le branchie o l’applicazione di etichette con le pinzatrici.
Dal momento che quello sul dolore provato dai pesci è un dibattito non ancora risolto, l’inclusione degli allevamenti ittici nelle regolamentazioni riguardo al benessere degli animali per consumo alimentare è molto recente. Le indicazioni europee, per esempio, sono molto vaghe: non indicano nel dettaglio i metodi da utilizzare per uccidere i pesci, ma prescrivono soltanto di farlo evitando per quanto possibile «dolore, stress e sofferenza», come per tutti gli animali. Ma l’itticoltura è un’industria relativamente giovane, e secondo molti è normale che debba ancora sviluppare standard adeguati.
Ci sono esempi che testimoniano che si sta andando in questa direzione: nel 2010 in Norvegia fu proibito l’utilizzo dell’anidride carbonica per uccidere i salmoni, che oggi è stato quasi interamente abbandonato. Importanti organizzazioni dell’industria ittica, come il Seafood Summit e la American Fisheries Society, hanno recentemente cominciato a includere dibattiti sul benessere dei pesci nei loro eventi. Questi piccoli progressi, ovviamente, riguardano soprattutto i paesi Occidentali: in tanti posti del mondo dove la sensibilità animalista è meno diffusa l’intero dibattito sul trattamento riservato ai pesci, e in generale agli animali allevati, è marginale se non assente.
Un rapporto della Commissione Europea diffuso a marzo ha riassunto un po’ la situazione a livello comunitario, considerando le linee guida dell’Organizzazione Mondiale per la Salute Animale (OIE) e dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA). Il rapporto si è occupato di cinque specie – salmone atlantico, carpa comune, trota iridea, branzino e orata – che vengono trattate in modi diversi tra di loro, e che a loro volta cambiano tra nazione e nazione. Le indicazioni dell’OIE, che sostanzialmente prevedono l’utilizzo dello stordimento meccanico o elettrico, sono rispettate per certe specie e in certe nazioni, ma non per altre e in altri paesi. Se il salmone come abbiamo visto viene ormai quasi esclusivamente ucciso dopo essere stato stordito, l’asfissia nel ghiaccio è il metodo prevalentemente usato per i branzini e le spigole in Grecia, Spagna e Italia, come documentato dal video di Essere Animali.
Nelle sue conclusioni, il rapporto dice che migliorare gli standard di trattamento dei pesci non avrebbe grandi costi per i grandi itticoltori, ma potrebbe invece essere difficile per quelli più piccoli. Aggiunge che l’industria ittica «sta lentamente ma costantemente migliorando il benessere dei pesci, com’è testimoniato dal sempre maggiore impiego di metodi di uccisione più umani, come lo stordimento elettrico, e la scomparsa di altri come l’uso dell’anidride carbonica». Secondo il rapporto, dato che l’itticoltura è ancora un’industria recente e le tecnologie stanno avanzando, prevedere procedure specifiche sarebbe potenzialmente nocivo, e lo stesso risultato si può raggiungere affidandosi all’adozione volontaria dei nuovi standard. Ipotizza però che, in ogni caso, una regolamentazione sarebbe più efficace a livello dei paesi membri, e non a quello comunitario.