Perché Trump non vuole mollare l’Arabia Saudita
Nonostante sia una monarchia islamica ultraconservatrice dove i diritti umani non esistono, e nonostante l'omicidio di Jamal Khashoggi: non c'entra solo il petrolio
Giovedì il presidente statunitense Donald Trump era arrivato molto vicino a riconoscere il coinvolgimento dell’Arabia Saudita nell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, sparito lo scorso 2 ottobre nel consolato del suo paese a Istanbul, in Turchia. Trump aveva detto di credere che Khashoggi fosse morto, e per la prima volta aveva pubblicamente mostrato fiducia nelle diverse informazioni di intelligence che parlano di una partecipazione diretta nella vicenda del potente principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman. Sabato, però, ha detto di considerare «credibile» la versione fornita venerdì sera dalla monarchia saudita, secondo la quale Khashoggi sarebbe morto in una rissa mentre cercava di scappare dal consolato. Questa ricostruzione, che scagiona completamente Mohammed bin Salman, non è considerata credibile da praticamente nessun esperto, e tutti gli indizi a disposizione puntano a un omicidio volontario e ordinato dalla famiglia reale.
Le parole di Trump sono state subito interpretate come l’ennesimo tentativo di proteggere il rapporto che lega i due paesi da decenni. Ma perché l’Arabia Saudita è così importante per gli Stati Uniti? E perché, nonostante la diffusione di notizie e ricostruzioni sul coinvolgimento di Mohammed bin Salman nella sparizione di Khashoggi, Trump continua a dire di credere all’improbabile versione dei fatti presentata dalla famiglia reale saudita?
L’alleanza tra statunitensi e sauditi – cioè tra una democrazia laica liberale e una monarchia islamica ultraconservatrice – potrebbe sembrare piuttosto bizzarra, e in effetti lo fu fin dal principio. I rapporti di amicizia tra i due paesi iniziarono 75 anni fa sotto la presidenza di Franklin D. Roosevelt, e si svilupparono attorno a un’idea molto chiara: i sauditi avrebbero garantito agli americani accesso al petrolio e stabilità regionale del Medio Oriente, che già allora era una zona di mondo turbolenta; gli americani si sarebbero occupati della sicurezza saudita. Negli ultimi decenni le amministrazioni statunitensi hanno cambiato più volte gli alleati mediorientali, a seconda del momento e dell’opportunità: alla fine degli anni Settanta, per esempio, l’Iran smise di essere uno dei principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente e divenne il suo principale nemico. L’Arabia Saudita, invece, è rimasta sempre lì.
Come ha detto all’Atlantic Bruce Riedel, per 30 anni funzionario della CIA e ora al centro studi Brookings Institution, la relazione tra Stati Uniti e Arabia Saudita si è sempre basata su interessi comuni, non su valori comuni: «Loro [i sauditi] sono una monarchia assoluta sposata con una teocrazia». È difficile pensare a un paese alleato degli Stati Uniti così diverso dagli Stati Uniti. In Arabia Saudita, per dirne qualcuna, l’Islam è interpretato in maniera estremamente conservatrice, i diritti umani sono sistematicamente violati, la libertà di espressione negata, e le opposizioni inesistenti.
Gli interessi comuni tra americani e sauditi, però, sono da sempre molti. Per decenni il perno dell’alleanza, almeno da parte statunitense, è stato il petrolio: non solo gli americani compravano grandi quantità di greggio dai sauditi, ma la solidità politica saudita faceva si che il mercato globale del petrolio rimanesse stabile. L’importanza di quest’ultimo punto fu chiara a tutti nel 1973, quando dopo la guerra dello Yom Kippur i paesi produttori di greggio, tra cui l’Arabia Saudita, decisero di interromperne la vendita agli Stati Uniti e ad altri paesi occidentali, colpevoli di avere aiutato Israele nel conflitto. Gli effetti furono enormi: il prezzo del petrolio aumentò fino al 400 per cento e provocò la crisi energetica dal 1973, che ebbe effetti persino in Italia, segnando la fine del lungo periodo di crescita economica cominciato negli anni Cinquanta.
Nel corso del tempo il petrolio ha perso centralità nell’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti, per diverse ragioni: per motivi legati alla tipologia di contratti petroliferi, per esempio, oggi è molto più facile per qualsiasi paese cambiare in breve tempo la propria fonte di approvvigionamento energetico, venendo meno quindi al ricatto dei grandi produttori di petrolio; gli Stati Uniti, inoltre, importano una minima quantità di greggio dall’Arabia Saudita: producono più di metà del petrolio che consumano e il resto lo comprano principalmente dal Canada. Da molti anni il governo statunitense è interessato all’alleanza con i sauditi soprattutto per il tema dell’antiterrorismo, e potrebbe sembrare strano se si considera che la maggior parte degli attentatori dell’11 settembre 2001 era saudita.
Gli sforzi dell’Arabia Saudita nel combattere il terrorismo, e in particolare al Qaida, iniziarono proprio nel 2001, ma si intensificarono dopo il 2003, cioè dopo che diversi attacchi compiuti da miliziani islamisti uccisero più di 30 persone a Riyadh, la capitale saudita. Nel corso degli anni questa collaborazione ha portato a una sempre maggiore condivisione di informazioni di intelligence che ha avuto diversi risultati concreti: per esempio nel 2010 vennero intercettati per tempo due pacchi bomba diretti negli Stati Uniti, grazie a informazioni passate dai servizi sauditi. Come molti altri aspetti dell’alleanza tra Stati Uniti e Arabia Saudita, anche quello legato alle operazioni antiterrorismo è in un certo senso paradossale. Daniel Byman, esperto di antiterrorismo, ha detto in una recente audizione al Congresso: «Da un lato il governo saudita è un partner molto stretto degli Stati Uniti sull’antiterrorismo. Dall’altra parte, il sostegno saudita verso una schiera di predicatori e organizzazioni non governative contribuisce a un generale clima di radicalizzazione, rendendo più difficile contrastare l’estremismo violento».
Ai discorsi sul petrolio e sulla collaborazione legata all’antiterrorismo, va aggiunto anche l’interesse statunitense ad avere dalla sua parte l’Arabia Saudita in funzione anti-Iran. Negli ultimi anni questo punto è diventato sempre più importante, a causa della crescente influenza che l’Iran ha acquisito in diversi paesi dell’area del Medio Oriente allargato, tra cui Afghanistan, Iraq e Siria. Trump non solo ha deciso di ritirarsi dallo storico accordo sul nucleare iraniano firmato durante l’amministrazione Obama – che invece aveva rapporti piuttosto freddi con i sauditi – ma ha anche lasciato “carta bianca” ai sauditi nella loro guerra personale contro il regime iraniano, come hanno dimostrato i recenti casi del sequestro del primo ministro libanese Saad Hariri e dell’embargo imposto al Qatar.
Per capire come mai Trump abbia finora evitato di mollare l’Arabia Saudita, nonostante le convincenti accuse contro il regime saudita per l’omicidio di Khashoggi, c’è da considerare un’ultima cosa. Nell’ultimo anno e mezzo Trump ha investito moltissimo nell’alleanza con l’Arabia Saudita, ribaltando una tendenza avviata alla fine della presidenza Obama. Uno degli esponenti dell’amministrazione che più hanno investito nei rapporti con i sauditi, e in particolare con il potentissimo principe ereditario Mohammed bin Salman, è stato Jared Kushner, alto consigliere e genero di Trump. Kushner, ha scritto il New York Times, «ha elevato il principe ad alleato chiave nel mondo arabo e ad interlocutore principale della Casa Bianca nel regno».
Finché è stato possibile, l’amministrazione statunitense ha evitato di criticare apertamente i sauditi e ha mostrato loro tutto l’appoggio possibile, date le circostanze: fare diversamente avrebbe minato non solo la preziosa alleanza con l’Arabia Saudita, ma anche la credibilità di Trump e dei suoi collaboratori. È difficile però dire cosa succederà d’ora in avanti, soprattutto se la Turchia dovesse decidersi a rendere pubbliche le registrazioni audio dell’omicidio di Khashoggi, dalle quali potrebbe emergere una conferma del coinvolgimento diretto del governo saudita nella vicenda. Anche se così fosse, comunque, l’amministrazione Trump potrebbe adottare misure non eccessivamente severe, per evitare una rottura totale dei rapporti con gli alleati sauditi.