Storia della “manina”
Da dove arriva l'espressione complottista scelta da Di Maio e usata per primo da Bettino Craxi
«La manina è mia», disse nel gennaio del 2015 l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi all’assemblea dei deputati del Partito Democratico. In quei giorni Renzi stava ricevendo molte critiche per una norma comparsa a sorpresa in un disegno di legge. La norma introduceva una soglia di non punibilità per i reati fiscali e molti sostenevano che avrebbe favorito Silvio Berlusconi, condannato proprio per un’evasione sotto quella soglia. Renzi se ne prese personalmente la responsabilità e, difendendosi dalle accuse, disse che aveva ricevuto assicurazioni che quella norma non avrebbe riguardato Berlusconi. Pochi giorni dopo, d’accordo con il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, modificò la disposizione in modo che fosse sicuro che Berlusconi non ne avrebbe tratto alcun vantaggio.
Questa settimana, in un caso per certi versi simile, il capo del Movimento 5 Stelle ha di nuovo parlato di “manine” che avrebbero modificato il decreto fiscale che contiene il condono, allargandone le maglie ben oltre quanto Di Maio avrebbe concordato con i suoi alleati della Lega. “Manina”, insomma, è una di quelle espressioni che sono oramai entrate nel gergo politico italiano. È un sinonimo di complotto: quando entra in azione una “manina” significa che qualcuno è intervenuto nell’ombra, per esempio per modificare segretamente un decreto o per passare informazioni riservate alla stampa.
Come molte di queste espressioni, “manina” è nata nel corso della Prima repubblica. Il suo primo utilizzo nel significato inteso oggi è attribuito a Bettino Craxi, allora segretario del Partito Socialista Italiano, che la utilizzò la prima volta quasi esattamente 28 anni fa, nell’ottobre del 1990, dopo che all’inizio del mese, durante alcuni lavori di ristrutturazione in un appartamento di via Monte Nevoso, a Milano, in un’intercapedine di un muro vennero ritrovati una serie di documenti che appartenevano alle Brigate Rosse, il gruppo di estremisti di sinistra che 12 anni prima aveva rapito e ucciso il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro.
I documenti ritrovati costituivano la parte più consistente di quello che è stato chiamato il “Memoriale di Aldo Moro”, ossia l’insieme dei documenti scritti da Moro durante i 55 giorni della sua prigionia. Nell’intercapedine furono ritrovate 229 fotocopie dei manoscritti di Moro, più le lettere scritte da Moro durante la prigionia che le BR non vollero spedire ai destinatari e le brutte copie di quelle che furono spedite.
La coincidenza che portò molti a ipotizzare che dietro il ritrovamento ci fosse un complotto – oltre all’inveterata abitudine di politici e giornalisti di vedere complotti dietro ogni aspetto del rapimento di Aldo Moro – fu che il covo di via Monte Nevoso era già stato scoperto e perquisito nel 1978. All’epoca i carabinieri trovarono una prima serie di documenti appartenuti a Moro (oltre ad altro materiale delle BR) ma non l’intercapedine segreta.
Commentando il ritrovamento, Craxi fece il primo uso dell’espressione che si ricordi nella cronaca politica italiana: «Bisogna appurare in particolare se quelle lettere stavano lì da allora o se una manina ce le ha messe dopo». La manina, ipotizzarono molti, non poteva che essere quella dell’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti. I due erano non soltanto avversari politici, ma all’epoca del sequestro Moro si erano trovati su fronti opposti. Andreotti fu uno dei principali esponenti del fronte della fermezza, secondo il quale non bisognava cedere alle richieste dei terroristi. Craxi invece era a favore della trattativa, arrivando al punto da entrare personalmente in comunicazione con alcuni dei sequestratori.
Negli anni Craxi e molti altri ipotizzarono che dietro la scelta della fermezza da parte di Andreotti e altri esponenti democristiani ci fossero inconfessabili segreti, complotti internazionali oppure rivalità personali. Il ritrovamento del memoriale con 12 anni di ritardo è stato a lungo uno degli elementi centrali in queste accuse, anche se nessuno dei documenti contenuti al suo interno è risultato particolarmente dirimente.
Per alcuni, come Craxi, non fu un caso. Numerosi esponenti della sinistra socialista e comunista e altri studiosi hanno sostenuto che il memoriale venne manipolato da “manine” che ne eliminarono le parti più compromettenti prima di farlo ritrovare (non è del tutto chiaro, però, perché in prima istanza decisero di farlo ritrovare). L’ultimo in ordine di tempo a sostenere la presenza di “manine” è stato lo storico e parlamentare Miguel Gotor, le cui conclusioni sono state criticate da un altro studioso, Vladimiro Satta. L’espressione “manina” da allora ha avuto quasi altrettanta fortuna delle teorie del complotto sul caso Moro, finendo sulla bocca di almeno uno dei componenti di tutti i successivi governi e delle successive legislature, fino ad arrivare a questa settimana e alle accuse di Luigi Di Maio.