In Grecia qualcuno pensava che il Partenone fosse in vendita
I dipendenti hanno scioperato, perché girava voce che il governo volesse privatizzarlo: non era vero, ma forse era credibile
Giovedì 11 ottobre il Partenone di Atene – uno dei monumenti più famosi del mondo, e il più famoso della Grecia – è rimasto chiuso per 24 ore a causa di uno sciopero dei dipendenti del ministero della Cultura, che protestavano contro la possibilità che il governo volesse venderlo ad alcuni investitori privati. Nei giorni precedenti, infatti, era circolata la notizia che il Partenone e altri famosissimi siti archeologici greci – tra cui il palazzo di Cnosso a Creta e la Torre Bianca di Salonicco – fossero stati inclusi in una lista di beni destinati alla vendita, all’interno del grande piano di privatizzazioni che il governo greco si è impegnato ad attuare in cambio dei grossi prestiti ricevuti negli ultimi anni dalla comunità internazionale. Per quel che se ne sa, era una notizia falsa: il governo greco ha detto più volte di non avere intenzione di privatizzare beni culturali e archeologici.
Giovedì scorso migliaia di turisti sono rimasti comunque fuori dai cancelli dell’Acropoli di Atene, su cui erano stati appesi cartelli con scritto «Non in vendita». Al posto dei biglietti i visitatori hanno ricevuto un volantino che spiegava le ragioni della protesta e che accusava il governo di aver ipotecato i musei e i monumenti per pagare i debiti della Grecia. Ogni anno più di 30 milioni di persone visitano la Grecia e gli ingressi ai siti archeologici e ai musei, da soli, portano circa 100 milioni di euro di entrate per lo Stato: secondo le stime del ministero della Cultura, lo sciopero ha fatto perdere circa 500 mila euro di guadagni.
Non è chiaro da dove fosse nata la notizia sulla vendita del Partenone. Il giornale greco Kathimerini ha scritto che i dimostranti chiedevano al governo di pubblicare la lista dei siti archeologici, dei monumenti e dei musei che erano stati presi in considerazione per la vendita, e di spiegare che cosa sarebbe successo con le privatizzazioni. Mercoledì scorso, il giorno prima dello sciopero, il ministro delle Finanze greco Euclid Tsakalotos aveva ribadito che i beni culturali del paese non sarebbero stati mai messi in vendita, né gestiti da enti privati. Anche il ministro della Cultura Myrsini Zorba, parlando alla televisione nazionale, ha negato che il governo intenda vendere siti archeologici e musei.
A parte la smentita, è vero che negli ultimi anni molte grandi proprietà statali della Grecia sono state privatizzate e vendute a società straniere. Nel 2011, dopo la crisi che portò il paese vicinissimo al fallimento, una delle condizioni per il salvataggio imposte dalla comunità internazionale fu che la Grecia cominciasse un grosso processo di vendita del suo patrimonio pubblico, per ridurre la spesa pubblica e il suo indebitamento diventato insostenibile. Per gestire le privatizzazioni fu creato il Fondo di sviluppo del patrimonio della Repubblica ellenica (Hradf), che da allora ha gestito la vendita di società e beni pubblici, tra cui il porto del Pireo di Atene, ceduto nel 2016 alla società di logistica COSCO per 368,5 milioni di euro.
Dal 2010 la Grecia ha ricevuto circa 300 miliardi di euro di prestiti dall’Unione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale, e ci si aspettava che dalle privatizzazioni venissero raccolti più o meno 50 miliardi di euro. Secondo i dati del ministero delle Finanze greco, però, negli ultimi otto anni lo Stato ha guadagnato solo 4,7 miliardi dalla vendita del patrimonio pubblico, principalmente a causa di lungaggini burocratiche e della resistenza dei sindacati alle privatizzazioni. Il 2018 è stato l’anno migliore per le vendite, che finora hanno portato 2,7 miliardi di euro, ma alcune delle operazioni più redditizie, come quella dell’aeroporto di Atene, sono ancora in sospeso e verranno chiuse probabilmente l’anno prossimo.
Il piano di privatizzazioni non verrà interrotto nemmeno ora che la Grecia è ufficialmente fuori dal piano di salvataggio internazionale, ed è probabilmente per questo che in molti hanno ritenuto credibile – per quanto sembri strano – che il Partenone potesse davvero essere messo in vendita.