I giornali americani hanno un altro motivo per avercela con Facebook

Mentre il nuovo algoritmo continua a penalizzare le pagine dei giornali, è diventato più lungo e complesso sponsorizzare gli articoli che parlano di politica

(JOSH EDELSON/AFP/Getty Images)
(JOSH EDELSON/AFP/Getty Images)

In seguito allo scandalo che ha coinvolto Cambridge Analytica, la controversa società di consulenza accusata di aver ottenuto senza permesso i dati di 50 milioni di utenti di Facebook, e alle discussioni e polemiche sull’uso di notizie false per condizionare la politica statunitense, Mark Zuckerberg aveva spiegato che in futuro tutti i post sponsorizzati su Facebook che avessero avuto dei contenuti politici sarebbero stati inseriti in un database, perché un team ne verificasse la legittimità e li approvasse. Insieme ai post sponsorizzati direttamente da partiti o da singoli politici, però, nel database finiscono anche i post pubblicati su Facebook dalle pagine che si occupano di notizie, da quelle delle testate più grandi a quelli della stampa locale. Questa nuova policy è entrata in vigore ufficialmente negli Stati Uniti lo scorso maggio – mentre in Italia per ora non è cambiato nulla per quanto riguarda la sponsorizzazione di articoli con contenuti politici – e in questi giorni arriverà anche nel Regno Unito.

Naturalmente i post possono essere pubblicati immediatamente senza nessuna sponsorizzazione, ma di questi tempi per tanti giornali sponsorizzare i propri post – cioè pagare Facebook perché li mostri a più persone – può diventare una questione di sopravvivenza. Il News Feed di Facebook non mostra infatti tutti i contenuti pubblicati da tutte le pagine seguite da ogni utente e da tutti i suoi amici, bensì una selezione operata da un algoritmo secondo alcuni criteri generali e gli interessi di ogni utente. Negli ultimi anni Facebook ha progressivamente corretto il proprio algoritmo limitando la visibilità dei post delle pagine, e con il nuovo algoritmo annunciato a gennaio del 2018, e i cui primi effetti si sono visti verso la metà dell’anno, sono stati ancora più valorizzati i post delle persone fisiche – degli amici, per intenderci – a scapito dei contenuti pubblicati dalle pagine e di quelli sponsorizzati.

Per i giornali, grandi e piccoli, questa decisione si è tradotta nel crollo di quello che in gergo viene chiamato reach organico dei post, cioè della capacità di un post di essere visualizzato sul News Feed da un utente, senza che venisse sponsorizzato. Se i post di una pagina vengono mostrati a meno persone, sarà minore anche il numero di persone che cliccheranno sul link contenuto in quel post, per leggere l’articolo in questione; e se meno persone cliccheranno sull’articolo, sarà minore anche il numero di banner pubblicitari visualizzati dal giornale che ha pubblicato quell’articolo. In sostanza, quindi, il cambio di algoritmo ha privato i giornali – soprattutto quelli che erano più dipendenti dal traffico da Facebook – di clic e di soldi, e per ovviare a questo calo del reach in tanti quindi hanno deciso di investire in post sponsorizzati, per cercare di colmare la perdita di visite degli ultimi mesi.

Il nuovo approccio di Facebook, però, prevede che per promuovere un post a tema politico sia necessario che il giornale o sito di news venga autorizzato in quanto inserzionista politico (e assicurare così che non sia un sito di bufale o un’operazione di propaganda), che invii un documento che ne dimostri l’identità e uno che ne dimostri la residenza negli Stati Uniti. Se questo processo per un grande giornale può essere al massimo una seccatura, per tanti piccoli giornali locali che ogni giorno pubblicano link a contenuto politico su Facebook sta diventando un problema.

I primi a lamentarsi di questa nuova politica di Facebook sono stati quelli della dalla News Media Alliance, un’associazione di categoria che raccoglie più di duemila testate statunitensi, dalle più famose come il  New York Times e il Washington Post, a molti altri piccoli giornali. In una lettera, la nuova strategia di Facebook è stata definita pericolosa, perché «non prende in considerazione la differenza che esiste tra propaganda e informazione. Questo modo di vedere il giornalismo minaccia la sua capacità di svolgere il suo ruolo critico di “quarto potere” nella società».

Inoltre c’è il tema dei lunghi tempi impiegati da Facebook per approvare le inserzioni sugli articoli, che non si prestano molto ai tempi concitati del giornalismo e delle notizie. Intervistato dalla Columbia Journalism Review Nick Kratsas, responsabile delle operazioni digitali dell’Observer Reporter, un giornale della Pennsylvania, ha raccontato che il fatto che ogni articolo che citi un politico o una storia di politica venga segnalato sta diventando così irritante che il suo giornale sta valutando seriamente quanto sia ancora utile investire soldi nel farsi pubblicità su Facebook. In molti casi, dopo che l’articolo viene segnalato, Facebook può impiegare anche alcuni giorni prima che decida per la sua pubblicazione, così accade spesso che l’inserzione vada online quando l’articolo promosso è ormai già vecchio. In un caso, racconta Kratsas, il suo giornale voleva sponsorizzare un articolo sulla storia di una bambina sopravvissuta all’attentato dell’11 settembre 2001, ma Facebook glielo impedì perché ritenne che le parole “Bush” e “9/11” fossero segno di contenuti politici.

Lo stesso succede anche in grandi giornali come il New York Times, dove l’articolo sullo storico incontro tra Donald Trump e Kim Jong-un venne segnalato da Facebook come un contenuto politico: un atto definito sbagliato dal CEO del giornale Mark Thompson, perché confondeva l’informazione politica con la politica stessa. Che il nuovo processo di verifica dei contenuti politici su Facebook non funzioni benissimo lo dice anche quanto successo alla sezione di cucina del New York Times, che si chiama Cooking e si è vista segnalare come contenuto politico, senza nessun particolare motivo, un articolo che aveva come foto in evidenza una torta al pistacchio.