Ma l’Arabia Saudita non stava cambiando?
Dietro all'assurda sparizione del giornalista Jamal Khashoggi c'è il principe Mohammed bin Salman, lo stesso delle patenti alle donne e degli annunci sull'Islam moderato
di Elena Zacchetti
È passata più di una settimana dalla scomparsa del giornalista saudita Jamal Khashoggi, e ancora non si sa con certezza cosa sia successo. Negli ultimi giorni diverse fonti – rimaste per lo più anonime, ma considerate molto affidabili – hanno parlato con i principali giornali internazionali, in particolare con il New York Times e il Washington Post, e hanno sostenuto che Khashoggi sia stato ucciso da uomini sauditi all’interno del consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, in Turchia, dove era entrato poco dopo le 13 del 2 ottobre per ottenere dei documenti di divorzio. Khashoggi era residente negli Stati Uniti da tempo: è un opinionista del Washington Post noto soprattutto per le sue posizioni molto critiche verso il principe ereditario saudita, il potentissimo Mohammed bin Salman.
Dopo i primi giorni di indagini e inchieste giornalistiche, sembra non esserci più alcun dubbio sul coinvolgimento della famiglia reale saudita nella scomparsa – molto più probabilmente omicidio – di Khashoggi. Ci sono diversi elementi che lo fanno pensare: i 15 uomini arrivati da Riyadh a Istanbul su voli charter e coinvolti nella vicenda, la sparizione dei video delle telecamere di sicurezza all’interno del consolato, e soprattutto alcune intercettazioni dell’intelligence statunitense che mostrano che fu Mohammed bin Salman a ordinare la cattura di Khashoggi e il suo trasferimento in Arabia Saudita. A questo punto il lettore distratto potrebbe chiedersi: ma Mohammed bin Salman non era quello delle grandi riforme, delle patenti di guida alle donne, dei concerti live, dell’Islam moderato e della riapertura dei cinema?
Le riforme inaspettate, la feroce repressione
La stampa internazionale si accorse di Mohammed bin Salman, o MbS, per un enorme e ambizioso piano di riforme presentato nell’aprile 2016 e chiamato “Vision 2030”, che avrebbe dovuto rendere l’Arabia Saudita indipendente dall’andamento dei mercati petroliferi entro il 2030. MbS ricevette allora grandissime attenzioni e le sfruttò per scalare pezzo dopo pezzo la famiglia reale saudita, fino a farsi nominare erede al trono da re Salman, suo padre, e diventare il politico più potente e importante del regno.
Nell’ultimo anno e mezzo MbS è finito più volte sulle prime pagine dei giornali internazionali, presentato come promotore di un’Arabia Saudita diversa, meno legata alla precedente rigida interpretazione dell’Islam. Lo scorso anno Thomas Friedman, storico opinionista del New York Times, scrisse per esempio che «il più significativo processo di riforme in corso oggi in tutto il Medio Oriente si sta verificando in Arabia Saudita. Si avete letto bene. Nonostante sia venuto qui all’inizio dell’inverno saudita, ho trovato un paese che sta attraversando la propria Primavera araba, in stile saudita». Friedman, insieme a molti altri, commentava le inaspettate riforme di MbS, che sembravano poter cambiare la vita quotidiana di tanti sauditi e saudite. Allo stesso tempo, però, altri analisti mettevano in guardia sugli innamoramenti esteri verso MbS: il principe ereditario stava già perseguitando sistematicamente tutti quelli in grado di minacciare il suo potere, e stava trasformando l’Arabia Saudita in un paese ancora più repressivo e autoritario (Friedman viene ancora molto criticato per quell’editoriale).
I più critici verso MbS non parlavano a caso. All’inizio di novembre dello scorso anno decine di principi e politici sauditi furono improvvisamente arrestati da una “commissione anti-corruzione” nata appena poche ore prima. Molti di loro furono detenuti per settimane nell’hotel Ritz-Carlton della capitale Riyadh, usato come prigione di lusso, mentre subivano pressioni per “risarcire” lo Stato dei presunti beni sottratti con la corruzione. Nei mesi successivi le forze di sicurezza saudite agli ordini di MbS arrestarono – spesso sequestrarono – diversi dissidenti, oppositori e critici verso il regime. Come dimostrano le informazioni d’intelligence ottenute dal Washington Post e pubblicate oggi, il regime saudita progettava da tempo il sequestro di Khashoggi: l’idea era “prelevarlo” dal territorio di uno stato straniero e riportarlo in Arabia Saudita, così che non avesse più modo di criticare il regno di MbS.
Quello che si chiedono in molti è: cos’è l’Arabia Saudita oggi? Il paese delle riforme sui cinema, sui concerti, sulle patenti alle donne, o il regime autoritario che persegue dissidenti e critici con una ferocia e un’impunità raramente viste nel passato? Entrambe le cose, probabilmente, ma soprattutto è il regno di un sovrano assoluto.
Un paese riformatore o un regime autoritario?
Le riforme avviate da MbS nel corso dell’ultimo anno hanno avuto l’obiettivo di cambiare faccia all’Arabia Saudita e dargliene una più “presentabile”, diciamo così, per allentare la pressione dei media occidentali, darsi l’immagine del rinnovatore, favorire gli investimenti esteri e migliorare i rapporti politici con i propri alleati, tra cui gli Stati Uniti. In un certo senso ha funzionato, ma a un prezzo altissimo.
Il giornalista Peter Bergen, esperto di sicurezza per CNN, ha scritto che MbS ha proseguito nelle misure che hanno reso l’Arabia Saudita «una dittatura totalitaria, nella quale tutti gli aspetti della società sono controllati da lui e tutte le forme di dissenso sono soffocate, un approccio che si è ulteriormente rafforzato con la sparizione di Khashoggi». Il fatto è che MbS ha avviato sì delle riforme, ma ha deciso di dettarne il ritmo e di non tollerare alcuna interferenza esterna: «È una vecchia tecnica che risale a Luigi XIV di Francia, che si pensa abbia detto: “L’état, c’est moi”, ovvero “Lo stato sono io”», ha aggiunto Bergen. Nell’ultimo anno e mezzo, in altre parole, MbS è stato ossessionato dall’accentrare il potere su di sé, eliminare tutti i suoi nemici politici e i suoi critici, facendo mosse così spregiudicate da sembrare incomprensibili e lasciare stupefatti.
Far sparire Khashoggi in un proprio consolato è solo l’ultima di una serie di mosse che non sembrano rispondere a logiche precise se non quella di esercitare sempre più potere. Nell’ultimo anno e mezzo, per dirne due, MbS ha deciso di imporre un embargo praticamente totale al Qatar, accusato di essere troppo vicino all’Iran, dando inizio a una crisi che finora non gli ha portato alcun vantaggio; e ha di fatto sequestrato e obbligato alle dimissioni il primo ministro del Libano, Saad Hariri, che poi una volta tornato in Libano si è ripreso la sua carica come se nulla fosse successo.
Perché MbS è così spregiudicato?
In poche parole: perché può farlo.
C’è una cosa da tenere a mente al riguardo: l’Arabia Saudita non è uno stato democratico, non ha un elettorato in grado di punire i governanti della famiglia reale, non concede libertà di espressione e di dissenso, non permette l’esistenza di un’opposizione politica come la intendiamo noi. È uno stato autoritario che non si deve preoccupare dell’indignazione popolare per avere fatto sparire un dissidente sotto gli occhi di tutto il mondo nel proprio consolato in un paese membro della NATO, come è la Turchia. E tutto questo nonostante le recenti riforme. Tolta l’inesistente pressione interna, c’è solo una cosa che avrebbe potuto rendere MbS meno spregiudicato: il rischio di perdere il più importante alleato e amico dell’Arabia Saudita, cioè il governo degli Stati Uniti. E questo è un punto importante.
Due anni fa, ha scritto il Washington Post in un editoriale, sarebbe stato inconcepibile che i governanti dell’Arabia Saudita fossero sospettati di sequestrare o uccidere un dissidente che viveva a Washington e scriveva regolarmente per un giornale così importante. I rapporti tra l’Arabia Saudita di re Salman e gli Stati Uniti di Barack Obama erano tesi e ai minimi storici, soprattutto per l’opposizione saudita all’accordo sul nucleare iraniano e per l’insofferenza statunitense verso le violenze saudite nella guerra in Yemen, ma proprio per questo il governo saudita evitava provocazioni e mosse spregiudicate: perdere del tutto l’amicizia con gli americani, in uno dei momenti di massimo confronto con l’Iran, sarebbe stato un durissimo colpo. Con Trump, però, le cose sono cambiate in maniera rapida e profonda.
Trump fece la prima tappa del suo primo viaggio ufficiale all’estero, quella che di solito è riservata agli alleati più stretti e fidati, proprio in Arabia Saudita, sorprendendo un po’ tutti. Quando nel novembre 2017 MbS ordinò l’arresto di decine di principi e politici nella presunta operazione anti-corruzione, Trump approvò e disse: «Ho grande fiducia in re Salman e nel principe ereditario dell’Arabia Saudita [MbS]. Sanno esattamente cosa stanno facendo». Quando MbS visitò Washington lo scorso marzo, Trump lo ricevette senza menzionare nemmeno una volta i diritti umani: «La nostra relazione è probabilmente più forte che mai», commentò. L’amministrazione statunitense non reagì troppo nemmeno a crisi più serie, per esempio di fronte all’imposizione dell’embargo sul Qatar, paese dove tra l’altro gli Stati Uniti hanno la loro più importante base militare del Golfo Persico, e al sequestro del libanese Hariri. Nel frattempo Trump aveva ritirato l’adesione degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, concedendo un’altra grande vittoria a MbS. L’idea di diversi analisti era semplice: gli Stati Uniti di Trump avevano dato praticamente “carta bianca” a MbS, che aveva cominciato a comportarsi di conseguenza.
Questa idea è stata ripresa anche oggi, dopo la sparizione di Khashoggi (che, peraltro, è appunto residente negli Stati Uniti e regolare opinionista di uno dei principali quotidiani americani). Da Trump non sono arrivate dichiarazioni indignate o tweet sopra le righe, e non è nemmeno stato convocato l’ambasciatore saudita a Washington per avere spiegazioni, una pratica diplomatica usata anche in situazioni molto meno gravi di questa. MbS in questo senso ha dimostrato di avere avuto ragione: lo poteva fare, senza temere conseguenze.
L’uccisione o il sequestro di Khashoggi, ha scritto il Washington Post, «potrebbe anche riflettere l’influenza del presidente Trump, che ha spinto il principe ereditario a credere – erroneamente, crediamo – che anche le sue mosse più spericolate e illegali avrebbero avuto il sostegno degli Stati Uniti». Di parere simile sono diversi altri analisti, che tra le altre cose sono andati a ripescare un rapporto riservato redatto nel maggio 2017 per l’allora segretario di Stato americano Rex Tillerson e scritto dal suo principale consigliere, Brian Hook. Nel rapporto si parlava della necessità per gli Stati Uniti di chiudere un occhio di fronte alle violazioni dei diritti umani di paesi alleati come l’Arabia Saudita.
Per il momento l’amministrazione Trump non ha alzato la voce con l’Arabia Saudita e non ha cambiato il tono pubblico del dibattito, nonostante sia sempre più chiaro che dietro la sparizione di Khashoggi ci siano i sauditi. Aspettarsi però che siano i sauditi a dare una spiegazione su quanto successo sembra oggi completamente inutile: nonostante gli annunci delle riforme tanto pubblicizzate negli ultimi mesi, chi governa l’Arabia Saudita non deve rendere conto quasi a nessuno, se non eventualmente ai propri alleati, perché così fanno gli stati autoritari.