Le ostriche troppo perfette
Le nuove tecniche di allevamento le hanno rese tutte uguali, con una forma gradevole e un sapore uniforme: ma forse qualcosa si è perso
«Viviamo nel tempo dell’ostrica perfetta», scrive Wyatt Williams sul New York Times Style Magazine. Sembra una constatazione soddisfatta ma è invece una critica un po’ nostalgica: «Come per altre cose in natura – spiega – abbiamo sacrificato la loro essenza selvaggia per renderci la vita più facile e piacevole. Quel che prima era complicato ora è semplicemente delizioso, perché noi l’abbiamo reso così».
Williams racconta che negli ultimi anni le ostriche sono diventate tutte uguali: come molti prodotti dell’industria alimentare sono state uniformate a uno standard qualitativo ed estetico che non riserva sorprese negative ma neanche positive. Un tempo le ostriche avevano qualcosa di avventuroso, spiega: avevano un guscio brutto, grigiastro e bitorzoluto, potevano avere un sapore marcescente o eccelso, potevano anche farci ammalare. Da decenni quasi tutte le ostriche che mangiamo sono allevate – la specie più diffusa è la giapponese Crassostrea gigas – e negli ultimi tempi, soprattutto negli Stati Uniti, nuove tecniche hanno permesso di controllare e selezionare la dimensione e la forma del guscio e la consistenza della carne: le conchiglie sono più levigate e tondeggianti mentre il mollusco è meno viscido, più compatto e grosso, e meno complicato da succhiare.
Tra le ostriche americane tutte uguali e perfette ci sono per esempio le Kusshi di Vancouver Island, le Peconic Gold di New York, le Murder Point dell’Alabama e le White Stone della Virginia. Queste in particolare vanno molto di moda, tanto che un anno fa il sito gastronomico Bon Appétit le definì, insieme alle Squalli Absch della Costa ovest, le Birkenstock delle ostriche: «un giorno l’unica persona a indossarle che conosci è il tuo ex tutor in campeggio, il giorno dopo non puoi fare un passo senza incontrarne un paio». Bon Appétit le descrive come «dolci, carnose, mediamente salate, con note di melone maturo e miso»; negli Stati Uniti si possono ordinare online, 50 costano circa 70 dollari.
La storia delle White Stone è esemplare quando si parla di nuove ostriche. La White Stone Oyster Company fu fondata quattro anni fa dal trentenne Tom Perry, che già in passato aveva cercato il luogo perfetto per il suo allevamento di ostriche: stavolta, dove il fiume Rappahannock sfocia nella baia di Chesapeake, a sud di Washington, sembrava averlo trovato. Il posto era ottimo per la profondità uniforme del fondo, per l’esposizione a nordest che avrebbe ammassato le ostriche nelle loro scatole galleggianti in modo ordinato e per l’acqua salmastra, che avrebbe conferito ai molluschi un sapore equilibrato, non troppo dolce né troppo salato.
La zona era effettivamente ideale, visto che già in passato migliaia di ostriche crescevano spontaneamente nella Chesapeake Bay. Un secolo di raccolta estensiva e l’inquinamento le ridussero però a niente, rendendo necessario lo sviluppo dell’ostricoltura. Oltre al sapore dell’acqua e alle maree, la qualità delle White Stone è dovuta alle tecniche scelte da Perry, in particolare all’uso delle gabbie galleggianti anziché di quelle attaccate al fondo e più comuni nella baia. Funziona così: le larve di ostrica vengono inserite nelle gabbie galleggianti e ancorate al fondo; le onde a pelo d’acqua puliscono continuamente il guscio, lo rendono più resistente e liscio facilitando la suzione dell’ostrica, e lo arrotondano, favorendo la formazione di un mollusco più carnoso. Il movimento costante fornisce infatti più plankton, cioè cibo, alle ostriche, che si nutrono filtrando le particelle nell’acqua. È un sistema un po’ più rischioso a causa dei venti forti e gelidi della zona, ma permette di crescere ostriche migliori.
Il Washington Post definisce la White Stone «tazzine di porcellana bianca farcite di carne liscia e terrosa», mentre Williams scrive sul New York Times che «quando le metti in fila su un piatto, sembrano tutte uguali, ognuna è esattamente perfetta come l’altra», e forse è per questo che piacciono molto agli chef americani. Sono infatti le più servite negli degli oyster bar (cioè i ristoranti di ostriche) alla moda della zona, ma Perry sta cercando di esportarle anche in altri posti, come a New York e a Charleston, in South Carolina: «Vogliamo crescere, non nel senso delle quantità. Stiamo cercando di allevare le ostriche migliori al mondo», ha detto. Nel 2017 Perry aveva mille gabbie e raccoglieva circa 30mila ostriche a settimana.
Le White Stone sono il prodotto ultimo di una serie di innovazioni iniziata più di 150 anni fa. Le ostriche sono conosciute dall’antichità: i primi ad allevarle furono i cinesi, i greci erano ghiotti di quelle selvatiche, mentre duemila anni fa venivano allevate sia dai giapponesi che nei territori dell’Impero romano. Nel Medio Evo e nel Rinascimento si mangiavano quelle selvatiche che crescevano sugli scogli, e fu nella Francia del Seicento che ripresero i primi allevamenti nelle paludi affacciate sull’oceano Atlantico: le larve venivano raccolte dalle rocce e trasferite in stagni appositamente creati. Quando nel 1700 il sale smise di essere usato per gli scambi commerciali, le paludi lungo l’Atlantico destinate alle saline vennero usate per l’allevamento dei molluschi. Nel frattempo i letti naturali diventavano sempre più rari e dal 1850 vennero emanati periodicamente decreti che ne impedivano la raccolta: fu così che l’allevamento divenne necessario, finendo per modificare le ostriche stesse.
Negli Stati Uniti accadde qualcosa di simile. A inizio Ottocento il porto di New York era il principale fornitore di ostriche al mondo: agli scogli, ai moli e sul fondo delle chiatte ne erano attaccate circa sei milioni. Costavano pochissimo ed erano mangiate soprattutto dagli operai. Iniziarono a essere commercializzate, ma la domanda crescente portò a una raccolta eccessiva che insieme all’inquinamento causò la decimazione delle ostriche, l’importazione di nuove specie, tra cui la più resistente crassostrea gigas, e lo sviluppo dell’ostricoltura. Nel frattempo le ostriche, sempre più rare, diventarono la prelibatezza per pochi che sono ora.
L’ostricoltura si è evoluta a partire dagli anni Venti del Novecento, quando i giapponesi iniziarono a legare i molluschi alle corde sul fondo del mare per proteggerle dai predatori. Negli anni Ottanta le larve venivano attaccate a frammenti di guscio per farle crescere individualmente e non ammassate tra loro: così si evitava di separarle rischiando di spaccare il guscio. Nel 1986 venne brevettato un cilindro che galleggiava in mare aperto e, che usando la forza delle maree, faceva scontrare le ostriche tra di loro, lisciando la conchiglia e fornendo al mollusco più cibo, come accade per le White Stone.
Allevare ostriche richiede tempo, cura e attenzione, ma non devono essere nutrite, pulite e difese. Per prima cosa, quando le ostriche hanno deposto le uova, gli allevatori preparano i collettori su cui si appoggeranno le larve nelle prime tre settimane di vita; a quel punto vengono chiamate naissain e restano attaccate al sostegno per almeno 18 mesi. Inizia poi la fase del distacco, quando gli allevatori staccano e selezionano le ostriche; da quel momento verranno cresciute libere nei parchi di allevamento, dove resteranno ad “affinarsi” in acqua per almeno 4 anni. È in questo periodo che l’ostrica matura il suo sapore, che dipende moltissimo dall’ambiente in cui è immersa (tanto che si parla di merroir, così come si parla di terroir per i vini, cioè le caratteristiche ambientali in cui cresce la vite e che influenzano il sapore del vino): la presenza di alghe le renderà più erbacee, l’acqua dell’oceano più saline, il fondo di un fiume più terrose. L’ostrica, che sopravvive filtrando l’acqua in cui vive, è per questo apprezzata anche dagli ambientalisti, e può essere allevata anche nelle acque protette e nei parchi naturali.
L’offerta di ostriche più controllate e rassicuranti ne ha incrementato il consumo: in Virginia, negli ultimi dieci anni, il numero di ostriche coltivate è passato da sei milioni a più di 135 milioni. È stato favorito anche dall’apertura di ristoranti – i cosiddetti raw bar o oyster bar, cioè ristoranti di pesce crudo e ostriche – raffinati e alla moda che hanno sostituito quelli scalcagnati di un tempo. Ora le ostriche, compatte e tondeggianti nel loro guscio bianco e accogliente, sono servite accomodate sul ghiaccio in vassoi luccicanti. Negli Stati Uniti si mangiano condite – per esempio con funghi e cipolla – o con una spruzzata di limone, ma la cosa migliore è sempre succhiarle crude, senza niente, stavolta senza paura.