L’uomo che difende il diritto di parola dei nazisti
Marc Randazza è un avvocato statunitense famoso e controverso, impegnato a ridefinire il concetto di censura e libertà di espressione sui social network
In un’epoca in cui i successi elettorali di partiti e candidati molto estremisti hanno sollevato allarmi – sia negli Stati Uniti che in Europa – per la salute delle democrazie, dello stato di diritto e dei cosiddetti “valori democratici”, le battaglie per la promozione di uno di quei valori, cioè la libertà di espressione, hanno a volte protagonisti non scontati. Negli Stati Uniti, per esempio, i movimenti di opinione più vicini alla sinistra negli ultimi mesi hanno criticato con preoccupazione i frequentissimi attacchi del presidente Donald Trump contro la stampa, ma allo stesso tempo hanno accolto con soddisfazione e sollievo la decisione delle grandi società tecnologiche di censurare arbitrariamente – e a volte chiudere del tutto – le pagine di persone, testate e attivisti dei quali non condividono le idee, e che considerano pericolose.
BuzzFeed News ha dedicato di recente un lungo articolo a una persona che si trova, per sua scelta, al centro di queste storie: si chiama Marc Randazza ed è un avvocato specializzato in casi che riguardano il Primo Emendamento della Costituzione statunitense, cioè proprio quello che difende la libertà di espressione come un principio sacro per la democrazia americana. Più il mondo odia quello che qualcuno ha da dire, scrive BuzzFeed, più Randazza vorrà difendere quel qualcuno in tribunale e permettere che possa dire la sua. Storicamente, negli Stati Uniti, questo tipo di attività ha significato cose molto diverse: difendere produttori di film porno, per esempio, oppure artisti. Di recente, significa soprattutto difendere neonazisti: non le loro idee ma il loro diritto di esprimerle, in base allo stesso stato di diritto che protegge tutti senza eccezioni, ma che i neonazisti non condividono nonostante lo usino per i propri interessi. È complicato. La storia di Randazza permette di ragionare su cosa siano oggi la libertà di espressione e la censura, su quali limiti abbiano e su quali soggetti siano in grado di difendere o comprimere il diritto di ciascuno di dire la sua opinione.
Randazza è nato nel 1969 ed è cresciuto in una comunità italo-americana di Gloucester, in Massachusetts. Ha raccontato di essere stato un «bambino problematico», con molte difficoltà ad accettare il principio di autorità; poi fece parte del movimento punk e una volta, alle superiori, in quello che lui descrive come un momento significativo della sua vita, un professore molto di sinistra gli disse che la scuola non poteva costringerlo a giurare fedeltà alla bandiera americana: proprio in nome del Primo Emendamento. Dopo aver fatto molti lavoretti, Randazza si laureò in Giurisprudenza: sognava di lavorare all’ACLU, l’organizzazione non governativa statunitense per la difesa dei diritti e delle libertà, ma i suoi voti non erano abbastanza alti. Poi iniziò a lavorare in vari studi legali specializzati nei casi che avevano a che fare con il Primo Emendamento, che all’epoca riguardavano soprattutto persone che lavoravano nell’industria del porno.
Oggi Randazza rappresenta invece soprattutto attivisti, giornalisti e influencer vicini alla cosiddetta “alt-right”, la nuova estrema destra statunitense: tra loro ci sono Alex Jones, un noto conduttore televisivo e radiofonico complottista i cui contenuti online sono stati di recente rimossi da Apple, Facebook, YouTube e Spotify; il neonazista Andrew Anglin; il propagandista di bufale Chuck Johnson; il suprematista bianco Jared Taylor e molti altri ancora. Randazza è insomma diventato il volto legale della battaglia, alimentata dal presidente Trump, contro il “politicamente corretto” e a favore della “scorrettezza politica”, rivendicata e costruita in nome della libertà di pensiero e di espressione, dell’opposizione alla censura, del coraggio di andare al di là di tutti i conformismi e i discorsi concessi dal dibattito pubblico.
L’orientamento politico di Randazza non è chiarissimo: si dichiara favorevole alla ridistribuzione delle risorse e all’assistenza sanitaria universale, ma nel 2016 ha votato per il Partito Libertario, un partito che difende il liberismo, il capitalismo e vorrebbe che lo Stato facesse il minor numero di cose possibili ed esigesse la minor quantità possibile di tasse. I suoi casi girano quasi tutti intorno alle stesse domande: qual è il confine tra la repressione della libertà di parola e la rimozione di contenuti falsi o che incitano all’odio o “socialmente pericolosi”, e chi dovrebbe deciderlo. C’entra Internet, naturalmente, e c’entra il fatto che quando è stato scritto il Primo Emendamento la portata di alcuni discorsi era inimmaginabile. «Al momento, le persone che sostengono di essere più minacciate dalle azioni delle grandi aziende di Internet sono persone di destra. Ma indipendentemente dalla politica, le regole sono cambiate per tutti in un modo reale e tangibile», dice BuzzFeed.
Se per Randazza è attualmente in corso «una guerra contro i discorsi della destra», scrive BuzzFeed, questa guerra non viene combattuta nelle aule dei tribunali, dove a decidere sarebbe comunque un’autorità pubblica e quindi in qualche modo “controllabile” dal pubblico, bensì online e sui server di società a scopo di lucro che devono rispondere solo ai loro azionisti e sono preoccupate più per la loro immagine che per la buona salute dei principi democratici. Un tempo un avvocato che proteggeva il diritto di esprimersi di un neonazista avrebbe combattuto contro uno Stato o un governo locale in tribunale; oggi invece gli avversari principali sono le grandi aziende di Internet, che applicano strategie altalenanti, contraddittorie o controproducenti. A volte gli algoritmi e le persone che decidono cosa rispetta le linee guida dei social network hanno fatto errori grossolani, rimuovendo contenuti satirici o innocui e proteggendone altri diffamatori e pericolosi. Ma al di là degli errori sui singoli contenuti, è molto difficile stabilire cosa si possa pubblicare o abbia il diritto di essere pubblicato su un social network.
Negli Stati Uniti, società come Twitter, Facebook e YouTube godono di un ampio margine discrezionale nel moderare i contenuti pubblicati dagli utenti, e sono protetti dalla sezione 230 del Communications Decency Act. Alcune sentenze degli anni Novanta avevano fatto pensare che, se avessero moderato i contenuti pubblicati dagli utenti, le società di Internet sarebbero state ritenute responsabili di quei contenuti: di conseguenza, le aziende avevano smesso completamente di occuparsene. Nel 1996 venne allora approvata la sezione 230 del Communications Decency Act, che non considerava le aziende responsabili dei contenuti pubblicati da terzi. Questo permise ad aziende come i social network di esistere e di crescere, e di decidere cosa moderare e cosa no.
Per Randazza e i suoi clienti, però, la sezione 230 è un ostacolo (una specie di bavaglio, dice BuzzFeed) e indebolisce il Primo Emendamento. Kate Klonick, che insegna alla St. John’s University e che si occupa di libertà di espressione, e Jack Balkin, che insegna legge a Yale, dicono che effettivamente in questo sistema sono cambiate le regole della libertà di espressione, che non è più una semplice relazione tra due parti (lo Stato che minaccia l’espressione individuale) ma fra tre: lo Stato, i singoli utenti e le aziende di Internet. Secondo Randazza, le piattaforme offerte da queste aziende sono uno spazio pubblico irrinunciabile, e per questo dovrebbero garantire la libertà e le protezioni del Primo Emendamento; che però oggi «non si applicano alla maggior parte dei discorsi su Internet».
Un caso esemplare è quello di Alex Jones, difeso da Randazza. Jones è un noto conduttore televisivo e radiofonico americano complottista e di estrema destra, fondatore del sito Infowars, dove aveva propagandato bufale cospirazioniste, sostenendo anche che il massacro nella scuola elementare di Sandy Hook del 2012, in cui morirono 26 persone, fu una messinscena: per questo a marzo alcuni genitori dei bambini morti nella scuola gli fecero causa per diffamazione. Soltanto alcuni anni dopo e molte pressioni, Apple, Facebook, YouTube e Spotify rimossero i contenuti di Jones: ma fu una decisione delle aziende, non dei tribunali. La conseguenza è che Alex Jones è stato completamente privato della sua piattaforma con cui si rivolgeva al pubblico, e senza la decisione di un’autorità statale in base alla legge.
Am no fan of Jones — among other things he has a habit of repeatedly slandering my Dad by falsely and absurdly accusing him of killing JFK — but who the hell made Facebook the arbiter of political speech? Free speech includes views you disagree with. #1A https://t.co/RC5v4SHaiI
— Ted Cruz (@tedcruz) July 28, 2018
Naturalmente l’attività di Randazza gli ha attirato delle critiche. Lui si è sempre difeso dicendo di aver protetto gli interessi dei suoi clienti, indipendentemente dalle loro convinzioni, ma molti lo accusano di essere più coinvolto di quanto voglia far credere: Randazza infatti partecipa regolarmente a eventi organizzati dai suoi clienti ed è intervenuto più volte su Infowars, il sito cospirazionista di Jones, per discutere del Primo Emendamento, usando le medesime argomentazioni del suo cliente. Lo scorso luglio un sito di argomenti giuridici ha pubblicato un articolo, scritto da Elie Mystal, che si intitola: “Solo perché stai difendendo i nazisti, non significa che tu debba comportarti da coglione”. In pratica Randazza viene criticato perché non si è limitato a fare il proprio lavoro, ma ha cercato di riabilitare i suoi clienti.
BuzzFeed ha cercato di mettere meglio a fuoco la questione, sostenendo che Randazza apprezzi le opinioni “scandalose” in quanto tali. Non importa quanto le sue opinioni politiche divergano da quelle dei suoi clienti: con loro condivide un tono che negli ultimi tempi è diventato un modello politico, e chi critica questo tono è accusato automaticamente di minacciare la libera espressione. Nel difendere quel principio a tutti i costi, Randazza lo trasforma nell’idea che chiunque possa dire qualsiasi cosa a chiunque senza ripercussioni, scivolando dal terreno giuridico a quello culturale. Elie Mystal – autrice dell’articolo critico nei confronti di Randazza – sostiene invece che si debbano distinguere con chiarezza due circostanze. Da una parte i casi in cui è lo stato a voler censurare un cittadino per quello che dice, dall’altra i casi in cui la discussione è tra due privati: nel primo caso il Primo Emendamento va sempre fatto valere, a prescindere dai contenuti, nel secondo la questione è molto più sfumata.