Abbiamo addomesticato le volpi?

Non proprio, ma dagli anni Cinquanta va avanti un esperimento che potrebbe spiegarci come siamo arrivati dai lupi ai chihuahua

Su Instagram 2,9 milioni di persone seguono il profilo di Juniper, una volpe che vive in una casa in Florida insieme a vari altri animali e all’umana Jessika Coker. Video buffi a parte, Juniper è interessante perché è uno di quegli animali che pur non appartenendo a una specie addomesticata, in una qualche misura lo è: fa alcune cose che una volpe selvatica non farebbe mai, come scodinzolare alle persone e lasciarsi accarezzare. Ha però un forte istinto a scavare buche, anche quando sta su un materasso, e fa la pipì su tutti gli oggetti che le “appartengono”. Insomma non è addomesticata al cento per cento, ma è sulla strada per diventarlo, o meglio per far sì che le sue discendenti lo diventino. Altre volpi nel mondo ci sono ancora più vicine, e per questo vengono studiate per capire cosa succede al DNA di una specie animale quando viene addomesticata.

 

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Juniper è nata in cattività e le sue antenate erano state allevate per fare pellicce. È più grande delle volpi selvatiche e ha una pelliccia più folta e soffice: le volpi da cui discende erano state fatte riprodurre in modo da fare cuccioli con la pelliccia sempre più lunga e sempre più folta. Involontariamente, insieme a questi caratteri fisici, sembra che gli allevatori abbiano anche selezionato un temperamento più socievole, ed è per questo che rispetto alle volpi selvatiche Juniper si comporta in modo più simile a un cane.

Per altre volpi, a loro volta vicine allo stato di domesticazione, si è fatta una selezione opposta a quella praticata sulle volpi da pelliccia: invece che incrociarle in modo da favorire lo sviluppo di alcune caratteristiche fisiche, sono state fatte accoppiare selezionando quelle più mansuete. Le volpi in questione vivono in Siberia, nel nord-est della Russia, e fanno parte di un grande esperimento iniziato alla fine degli anni Cinquanta per capire come funziona l’addomesticamento.

Cosa sappiamo e non sappiamo dell’addomesticamento
Per capire perché sessant’anni fa uno zoologo sovietico decise di provare ad addomesticare le volpi, bisogna sapere un paio di cose sull’addomesticamento. Sono addomesticate tutte quelle specie – cani e gatti ma anche cavalli e pecore – che vivono in contatto con le persone e hanno un certo rapporto di dipendenza nei loro confronti. Il tipo di relazione con le persone varia da specie a specie, può essere legata al tempo trascorso da quando il processo di domesticazione è iniziato (i gatti sono forse meno addomesticati dei cani) ed è diversa tra animali carnivori ed erbivori. In generale, tutti gli animali domestici sono molto più mansueti rispetto a quelli selvatici da cui discendono.

Secondo una teoria ampiamente condivisa e spiegata bene in Addomesticati, un saggio del divulgatore americano Richard C. Francis, dal punto di vista evoluzionistico lasciarsi addomesticare è una strategia di sottomissione che alcune specie hanno adottato per favorire la sopravvivenza della specie stessa. In alcuni casi, ad esempio quello dei cani, con evidente successo: “vita da cani” è un’espressione dispregiativa, ma la maggior parte dei cani vive molto più serenamente dei lupi e non è a rischio di estinzione. In altri casi, come quelli dei maiali e delle mucche, la domesticazione ha avuto un successo più discutibile (gli sviluppi delle tecniche di allevamento intensivo degli ultimi cento anni hanno probabilmente abbassato la loro qualità della vita) ma è innegabile che oggi di maiali e di mucche ce ne sono tantissimi proprio grazie alle persone.

In alcuni casi gli animali domestici sono sottospecie degli animali selvatici da cui discendono (come i cani con i lupi), in altri sono simili ad altre specie selvatiche con cui hanno un antenato comune (come i gatti con i gatti selvatici), ma la cosa che li accomuna tutti è che tollerano la presenza delle persone e le interazioni che hanno con esse. C’è poi la questione delle caratteristiche fisiche: rispetto ai corrispettivi selvatici, tutte le sottospecie addomesticate hanno dimensioni diverse (in alcuni casi maggiori, in altri minori), variazioni di colore nella propria pelliccia e alcune parti del corpo, come le orecchie e la coda, fatte in modo diverso. Inoltre tendono a riprodursi più spesso.

Nonostante le caratteristiche fisiche che distinguono specie addomesticate da specie selvatiche siano state ampiamente osservate, tra le tante cose che non sappiamo sull’addomesticamento c’è anche come, a livello genetico, selezionare una certa specie per un certo tratto abbia come effetto collaterale la selezione di altri tratti. Per questo il genoma delle volpi semi-addomesticate può aiutarci a capire come dai lupi si sia arrivati ad alani, terrier e chihuaua: è meno distante dal genoma delle volpi selvatiche e quindi le differenze dovrebbero essere più facili da trovare (per quanto, quando si parla di genetica ci sono poche cose facili).

Le volpi dell’esperimento in Siberia
L’unico esperimento di addomesticamento delle volpi mai fatto cominciò alla fine degli anni Cinquanta per iniziativa dello zoologo sovietico Dmitrij Beljaev. Fino al 1948 era stato il direttore del Dipartimento di allevamento selettivo di Mosca, poi era stato licenziato per questioni politiche: per questo portò avanti i suoi studi lontano dalla capitale russa. Lo scopo del suo esperimento era verificare una teoria precisa: le caratteristiche fisiche che differenziano gli animali addomesticati da quelli selvatici sono in qualche modo legate a un processo di selezione per una caratteristica comportamentale, la mansuetudine.

Nel 1959 Beljaev andò a vivere a Novosibirsk in Siberia, dove insieme ad altri fondò il Dipartimento siberiano dell’Accademia sovietica delle scienze, per poi diventare il primo direttore dell’Istituto di citologia e genetica del dipartimento stesso, tuttora uno dei principali centri di ricerca del pianeta per lo studio della genetica. Insieme alla sua assistente Ljudmila Trut, Beljaev selezionò da un allevamento estone di volpi da pelliccia 30 maschi e 100 femmine di volpe scegliendo quelle che più delle altre tolleravano la vicinanza delle persone senza mostrare aggressività o paura. Con questi esemplari avviò l’allevamento-esperimento di Novosibirsk.

Per selezionare la caratteristica della mansuetudine, Beljaev e Trut applicarono questa regola: facevano riprodurre solo il 5 per cento più mansueto dei maschi e il 20 per cento più mansueto delle femmine per ciascuna generazione successiva di volpi. Per assicurarsi che la mansuetudine fosse dovuta esclusivamente alle caratteristiche genetiche degli animali e non al trattamento ricevuto dai ricercatori, cioè all’ambiente, l’allevamento fu organizzato in modo che le volpi stessero per la maggior parte del tempo in gabbia, come in un laboratorio.

I primi risultati concreti si videro già con alcuni cuccioli della quarta generazione, che, contrariamente a quello che fanno normalmente le volpi selvatiche, scodinzolavano in presenza dei ricercatori. Le volpi della sesta generazione si dimostrarono ancora più mansuete: cercavano il contatto umano, guaivano e leccavano il viso dei ricercatori. Alla trentesima generazione, i cuccioli che scodinzolavano erano il 49 per cento di tutti i cuccioli. Nel 2005, a vent’anni dalla morte di Beljaev (Trut, che ora ha più di 80 anni, ha continuato a portare avanti l’esperimento), tutti i cuccioli scodinzolavano e da quell’anno, pagando diverse migliaia di euro, si possono adottare come animali da compagnia. Possono anche essere addestrati a svolgere alcuni semplici comandi.

Dal punto di vista caratteriale le volpi dell’esperimento di Beljaev e Trut sono un po’ una via di mezzo tra i cani e i gatti: sono più indipendenti e meno socievoli dei cani, ma più pronte a seguire le istruzioni dei gatti, che non si riescono ad addestrare. La cosa più sorprendente però è come in così pochi anni abbiano sviluppato anche alcune caratteristiche fisiche diverse da quelle delle volpi selvatiche, come voleva provare Beljaev: ad esempio, molti esemplari hanno la pelliccia pezzata, cosa che non capita in natura, e alcuni sulla fronte hanno macchie bianche a forma di stella simili a quelle di mucche e cavalli addomesticati. Non è tutto: rispetto ai loro simili selvatici, hanno la coda un po’ più arricciata, le orecchie un po’ più pendule, il mantello un po’ più lungo, il cranio allargato e le ossa delle zampe, la coda e il muso più corti. Infine possono riprodursi due volte all’anno, invece che una come le volpi selvatiche. La teoria di Beljaev dunque è stata confermata.

Alcune delle volpi dell’esperimento sono state acquistate dal Judith A. Bassett Canid Education and Conservation Center, una specie di zoo americano in cui le persone possono entrare in contatto e fare passeggiate con le volpi addomesticate. Un giornalista di The Verge ha visitato il centro: in questo video potete vedere come si sono comportate le volpi e anche che faccia aveva Beljaev.

L’ultima cosa che abbiamo imparato dalle volpi di Beljaev
Nel video di The Verge si parla anche di un articolo uscito lo scorso agosto sulla rivista Nature Ecology and Evolution. È il risultato di uno studio fatto sul genoma delle volpi di Novosibirsk da una squadra internazionale di scienziati, tra cui Anna Kukekova, professoressa di etologia alla University of Illinois Urbana-Champaign. Kukekova ha spiegato a The Verge che confrontando il genoma delle volpi addomesticate con quello delle volpi selvatiche è stato possibile individuare circa un centinaio di diverse regioni del codice genetico diverse tra i due tipi di animali. Dato che le volpi di Beljaev sono state selezionate solo in base al comportamento, si può dedurre che in queste regioni ci siano i geni responsabili della mansuetudine: un gene in particolare, il SorCS1.

Poiché i mammiferi hanno gran parte del proprio codice genetico in comune, i risultati dello studio di Kukekova e dei suoi colleghi potrebbero aiutarci a capire quali sono i geni dell’aggressività e della mansuetudine anche in altri animali e forse, in un futuro, permetterci di creare animali nati addomesticati in laboratorio. Scenari fantascientifici a parte, poi, potrebbero aiutare molto la scienza del comportamento degli animali, esseri umani compresi.