Il Guatemala è di nuovo in crisi
Il presidente Morales vuole revocare il mandato di una commissione dell'ONU che sta indagando su di lui: il rischio è un ritorno all'autoritarismo
Il Guatemala, uno stato dell’America Centrale che per 36 anni è stato attraversato da una guerra civile lunga e sanguinosa, sta affrontando ora una crisi che rischia di comprometterne ulteriormente la stabilità politica e sociale. Tre anni fa, scrive il New York Times, il Guatemala era diventato un esempio per il resto del Sudamerica; ora invece le azioni del presidente rischiano di causare una nuova caduta nell’autoritarismo.
Nel 2006 il governo guatemalteco e le Nazioni Unite avevano firmato un accordo per creare una commissione il cui compito fosse quello di indagare sui crimini commessi dai membri delle forze di sicurezza illegali, degli apparati clandestini dello Stato spesso collegati a ex ufficiali militari e anche del governo. Negli anni della ricostruzione, uno dei problemi principali per lo sviluppo politico ed economico del paese era l’alto livello di corruzione, che aveva anche alimentato una forte ondata emigratoria, unito alla quasi totale impunità dei reati.
La commissione, che si chiama Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala (CICIG), era nata come organo indipendente diventando ben presto, secondo l’ONU, un modello da esportare anche in altri paesi. Nell’autunno del 2015 il lavoro della commissione aveva coinvolto l’allora presidente Otto Pérez Molina (un ex generale negli anni del regime militare) che era stato indagato per corruzione e finanziamenti illeciti. La vicenda aveva causato settimane di proteste di piazza, e alla fine Molina era stato costretto a dimettersi e indire elezioni anticipate. Tra gli altri si era candidato Jimmy Morales, ex comico televisivo che all’epoca era anche segretario del partito conservatore FCN. Morales aveva fatto una campagna elettorale basata sulla lotta alla corruzione e su slogan come “Ni corrupto, ni ladrón”, “né un corrotto né un ladro”, e aveva vinto le elezioni al secondo turno con più del 67 per cento dei voti. Da due anni, però, Morales è finito sotto indagine da parte di quella stessa commissione la cui inchiesta aveva favorito la sua ascesa politica.
Le prime accuse di corruzione contro Morales risalgono all’inizio del 2017 e hanno riguardato il figlio e uno dei suoi fratelli (entrambi sono in attesa di giudizio). Poi le indagini si sono estese al suo partito e allo stesso Morales, accusato di aver nascosto alcune donazioni ricevute durante la campagna elettorale del 2015. Il presidente ha risposto attaccando la Corte costituzionale del paese, ha annunciato che non rinnoverà il mandato dalla commissione internazionale e ha dichiarato persona non grata Iván Velásquez Gómez, il procuratore colombiano a capo della commissione, impedendogli di rientrare nel paese. Lo scontro tra Morales e Velásquez Gómez prosegue da tempo: nel settembre del 2017 il procuratore generale del Guatemala e Velásquez Gómez avevano chiesto al Parlamento di togliere l’immunità al presidente. I deputati, molti dei quali erano coinvolti nel caso, avevano votato in maggioranza a favore del mantenimento dell’immunità; Morales aveva a quel punto ordinato l’espulsione dal paese di Velásquez, poi bocciata dalla Corte costituzionale.
Il New York Times spiega che per anni gli Stati Uniti hanno sostenuto e difeso in modo molto fermo il lavoro della commissione, aiutando il Guatemala anche economicamente in cambio di riforme e lotta alla corruzione, ma che da quando il presidente è Donald Trump questo sostegno sembra essere venuto meno. Non è stata presa una posizione convincente di condanna sulla campagna di Morales contro la commissione, e diversi diplomatici e politici statunitensi hanno espresso la loro preoccupazione. Alcuni esperti hanno suggerito che l’amministrazione Trump stia gestendo con cautela la crisi imminente del Guatemala per paura di ciò che potrebbe accadere dopo le sue eventuali dimissioni e per una sorta di lealtà verso Morales: qualche mese fa infatti il Guatemala aveva sostenuto la decisione degli Stati Uniti di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, seguendone poco dopo l’esempio. Ma quegli stessi esperti hanno fatto notare che una crisi del Guatemala potrebbe colpire direttamente gli Stati Uniti in uno dei punti che lo stesso Trump ha messo al centro della propria politica: le persone che, in seguito a una crisi di governo, potrebbero riversarsi in massa e all’improvviso negli Stati Uniti.
Senza il sostegno degli Stati Uniti, molti si sono chiesti se gli oppositori in Guatemala saranno in grado di ripetere quanto accaduto nel 2015, quando centinaia di migliaia di persone si mobilitarono e riempirono per mesi le piazze della capitale. Per ora nel paese si è svolta una prima protesta la scorsa settimana, con l’occupazione del centro di Sololá, nel sud-ovest della paese, e con il blocco di alcune strade della Panamericana. Altre dimostrazioni sono previste nei prossimi giorni. «Dobbiamo sostenere il lavoro della commissione», ha detto Javier Gramajo López, fondatore di uno dei gruppi coinvolti nelle proteste del 2015. «Invece di incitare la gente, chiediamo calma, aspettando il momento opportuno».
Nel frattempo, come ha raccontato il Guardian, molti attivisti denunciano da tempo una grave situazione sociale che colpisce soprattutto i piccoli agricoltori del paese, sia con azioni di sfratto che con aggressioni fisiche e uccisioni che spesso rimangono impunite o di cui non si trovano i reali mandanti: «Alla base della violenza c’è la decisione dello stato di usare terra, acqua e risorse naturali non per il beneficio di molti ma di pochissimi». E ancora: «C’è un clima di impunità di cui i difensori dei diritti umani sono preoccupati», ha detto al Guardian un alto funzionario del governo che ha chiesto di non essere citato. «La giustizia è parziale sia a livello locale che nazionale. La magistratura è vicina agli affari. È sempre a favore degli affari. La mancanza di un sistema giudiziario indipendente è un altro vero problema del paese».