In Sud Sudan si fa davvero la pace?
Sono bastati due giorni dalla firma del nuovo accordo tra governo e ribelli perché ci fossero scontri armati, e circolano molti dubbi
Venerdì, due giorni dopo la firma del nuovo accordo di pace tra il presidente del Sud Sudan Salva Kiir e i ribelli, tra i quali va avanti da cinque anni una violentissima guerra civile, c’è stata una violazione del cessate il fuoco. Uomini armati hanno attaccato due basi dei ribelli nello stato dell’Equatoria Centrale: secondo un portavoce dei ribelli l’attacco è stato compiuto dalle truppe governative, e dimostra che Kiir non ha intenzioni serie per quanto riguarda l’accordo di pace. Il governo da parte sua ha definito l’accusa “propagandistica”, e sostiene che dietro gli attacchi ci siano altri gruppi ribelli. In ogni caso, gli attacchi sembrano confermare i timori di molti osservatori internazionali e delle organizzazioni umanitarie che lavorano in Sud Sudan, secondo i quali anche questa pace non durerà.
L’accordo di mercoledì, definito «quello finale finale» dalle parti in causa, non infatti è il primo a essere stato raggiunto dall’inizio della guerra civile. Già nel 2015 Kiir e il capo dei ribelli Riek Machar (che dal 2011 al 2013 era stato vicepresidente del Sud Sudan sotto lo stesso Kiir) ne avevano negoziato e firmato uno, ma non si era mai arrivati a una vera pace. Dopo meno di un anno Machar era fuggito da Giuba, la capitale del paese, e da allora non ci è più tornato. Anche i cessate il fuoco bilaterali decisi nel corso di questi anni di guerra, almeno una decina, sono stati rispettati raramente.
Dopo la firma dell’accordo alcuni funzionari che hanno partecipato ai negoziati hanno parlato con BBC esprimendo dei dubbi sulla sua efficacia. Negli scorsi mesi anche i rappresentanti delle delegazioni di Stati Uniti, Regno Unito e Norvegia, i tre paesi non africani che hanno finanziato i negoziati e il governo di transizione che era stato messo in piedi tra il 2015 e il 2016, hanno manifestato preoccupazioni sul nuovo accordo.
Per quanto riguarda i suoi termini, l’accordo non è molto diverso dal precedente. Prevede che si formi un nuovo governo in cui Kiir continui a fare il presidente, e che Machar torni a essere uno dei cinque vicepresidenti. Il governo dovrà essere nominato nei prossimi otto mesi e avrà un mandato di tre anni, dopodiché si dovrebbero tenere le elezioni. Nelle nuove istituzioni provvisorie avranno un ruolo anche gli altri più piccoli gruppi armati attivi nel conflitto e con loro gli altri partiti politici esistenti, alcuni gruppi della società civile e leader religiosi. A differenza dell’accordo del 2015, quello firmato questa settimana stabilisce anche che verrà costituito un unico esercito e che il presidente ne sarà il capo. Sono stati decisi anche i tempi in cui dovrà avvenire lo smantellamento degli altri gruppi armati e l’eventuale reintegro dei loro membri nel nuovo esercito nazionale.
Se anche l’accordo di pace dovesse dimostrarsi efficace e segnare davvero la fine della guerra civile, il Sud Sudan dovrebbe comunque affrontare una situazione gravissima. Decine di migliaia di persone sono morte per il conflitto e tantissime vivono in condizioni di estrema povertà a causa della carestia che ne è conseguita. Più di 2,5 milioni di persone – il Sud Sudan ha una popolazione di 12 milioni di abitanti – hanno abbandonato il paese e quasi altri due, soprattutto membri di minoranze etniche, vivono ora nei campi profughi delle Nazioni Unite sparsi per il paese.
La situazione economica poi è disperata: prima della guerra, ogni giorno si estraevano 350mila barili di petrolio greggio, la principale risorsa naturale del paese e quella su cui si basa la sua economia, che ora sono scesi a 130mila. L’inflazione è altissima e sia il governo che i ribelli sono a corto di risorse: una delle ragioni per cui negli ultimi 15 mesi hanno cercato di mettere fine al conflitto. Infine, la popolazione è molto divisa anche perché sia l’esercito regolare che i ribelli hanno compiuto grandi violenze nel corso del conflitto: i rapporti delle Nazioni Unite hanno documentato stupri di gruppo, esecuzioni sommarie e sparatorie di massa.
Già i prossimi giorni potrebbero essere decisivi per capire se la nuova pace sarà una vera pace. Se i combattimenti cesseranno ovunque sarà un segnale positivo. Un’altra cosa determinante sarà il tempo che ci vorrà perché Machar torni a Giuba: i suoi portavoce hanno detto che succederà non appena ci sarà la certezza che nella città sarà al sicuro. Intanto il Ceasefire and Transitional Security Arrangements Monitoring Mechanism (CTSAMM), l’organo incaricato di monitorare sul rispetto dei cessate il fuoco dai paesi confinanti con il Sud Sudan, ha detto di aver avviato un’indagine sugli attacchi di venerdì.