Come nasce un pensiero infame
Edoardo Albinati ha scritto un libro sulle polemiche di quest'estate intorno a una sua frase, e sul paese intorno alle polemiche
Il 12 giugno scorso il governo italiano decise che 629 migranti soccorsi nel mar Mediterraneo sarebbero stati portati a Valencia con l’aiuto di due navi italiane, dopo che la Spagna aveva deciso di accoglierli. I migranti erano arrivati davanti alle coste italiane sulla nave Aquarius della ong SOS Méditerranée che li aveva raccolti in mare nei giorni precedenti, e che per due giorni aveva atteso invano un permesso per sbarcare in Sicilia. Del caso si stava parlando molto e quel 12 giugno, durante la presentazione di un libro a Milano, lo scrittore Edoardo Albinati – vincitore del premio Strega nel 2016 per La scuola cattolica – disse una frase per cui poi fu aspramente criticato su alcuni giornali e sui social network:
«Sapete, sono arrivato a desiderare che morisse qualcuno, su quella nave. Ho desiderato che morisse un bambino sull’Aquarius».
Nei giorni successivi Albinati non rispose alle polemiche, ma quest’estate ha scritto una lunga riflessione su quella storia e quella frase: l’editore Baldini+Castoldi l’ha pubblicata in un breve libro intitolato Cronistoria di un pensiero infame. Nel libro, diviso in tanti frammenti ciascuno con un suo titolo, Albinati riflette sul perché abbia avuto quel «pensiero infame» e sia arrivato a esprimerlo pubblicamente ma anche su molte altre cose dei tempi che corrono: ad esempio su cosa significa mettersi in viaggio in mare come fanno i migranti che arrivano dalla Libia, su chi siano gli intellettuali e quale sia il lavoro degli scrittori, ma anche sul fare a botte o sui detenuti a cui insegna da molti anni.
Questi sono tre pezzi di Cronistoria di un pensiero infame, in cui Albinati tra le altre cose spiega perché ha smesso di votare.
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Bellezza e sofferenza
Ma questi che parlano con tanto sprezzo dei migranti, perlopiù, non sanno nulla, non hanno visto nulla, non hanno messo il naso fuori dalle loro casette e villette, non hanno mai visto coi loro occhi un villaggio povero, ma povero sul serio, col pozzo secco, le capre sfiancate o morte, le mosche all’angolo degli occhi dei bambini, la puzza degli scoli, i carretti per portare via la poca roba.
Così come non hanno conosciuto le bellezze della terra, nemmeno ne conoscono le miserie. Forse sarebbero meno sprezzanti se avessero girato un po’ il mondo. Se se lo fossero goduto, se si fossero commossi per le sue meraviglie forse lo sarebbero anche per le ingiustizie che vi vengono perpetrate. E invece, nessuna pietà e nessun godimento, a parte il godimento meschino della mancanza di pietà. Stanno tutto il giorno a farsi selfie, a registrare proclami, a digitare minacce e frasi di scherno, ma quand’è che trovano il tempo per tutto il resto? Cioè, per la vita, inclusi i suoi estremi, bellezza e sofferenza? Gli ci vorrebbe una settimana, poniamo, a Varanasi, forse meno, due o tre giorni, e sono sicuro che molte delle loro fisime e molto del loro rancore svanirebbero di colpo, fra bambini ignudi vecchi sciancati gente che dorme per terra e gente che è morta in mezzo a quelli che dormono per terra, e suoni, fuochi, danze, e collane di fiori e lumini accesi abbandonati sulle acque del fiume.
Come Alex, il protagonista di Arancia Meccanica, viene sottoposto alla cura Ludovico, bisognerebbe applicare loro una anche modica dose di Varanasi, India, per guarirli.
(Ecco perché, forse, prima di diventare ministro, ministro di qualsiasi nazione e di qualunque dicastero, un paio di annetti fuori dai confini dovrebbe essere obbligatorio. Nient’altro che un prerequisito, tipo la patente se uno vuol essere assunto come corriere express. Dico un paio d’anni a zonzo, così, tanto per imparare qualcosa, e conoscere un po’ la vita e il mondo che ci circonda.)
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UN GRANDE NO
Posso dirlo, adesso? Posso dirlo con la stessa protervia e il medesimo qualunquismo dei nostri attuali governanti? Ecco qui, lo dico e al diavolo benpensanti e malpensanti: che a guidare oggi l’Italia sia una compagine di destra o di sinistra o di centro, a me non me ne può fregare di meno. Rossoverdi, gialloverdi, rosazzurri, stellati, crociati, zebrati, interisti o milanisti, sovranisti, federalisti, europeisti, non oso metterci bocca e non rivendico alcun diritto di giudicare, visto che non voto più.
Proprio così, ho smesso di votare.
Una scelta di cui non mi vanto ma neanche un poco mi vergogno: quattro compatrioti su dieci sono nelle mie stesse condizioni (quando si parla di «larga maggioranza», si tenga conto di questi numeri, per favore…). Il progressivo e inarrestabile avvento sulla scena politica, fin quasi a saturarla, di prepotenti, sbruffoni, imbonitori, venditori e comici televisivi, e bulli di varia estrazione ha interrotto la mia modesta quanto ondivaga consuetudine di elettore, che durava da quarant’anni, nel corso dei quali, peraltro, ci tengo a rammentarlo, mi sono sciroppato quasi senza fiatare cinque governi Andreotti ecc. ecc., mentre intanto io tracciavo croci su acronimi che ora nemmeno ci si ricorda cosa significassero. I bulli di cui sopra mi hanno privato del brivido delizioso di deporre una scheda nell’urna, anche perché mi ritrovavo puntualmente, poco tempo dopo, a fare amare considerazioni su chi avevo contribuito (nelle ultime tornate quasi obtorto collo) a eleggere. Mi sono dunque messo l’anima in pace, o meglio, ho immaginato che fosse più opportuno in questa fase declinante della vita pensare all’anima mia che preoccuparmi del frazionamento interno al Partito Democratico o dei progetti rivoluzionari di abolire il servizio di barbiere a Palazzo Madama per venire incontro al popolo, o dell’ennesimo magistrato che decide di giocarsi i numeri fortunati delle sue inchieste sulla ruota della politica, svestendo la toga e arringando gli elettori invece che una giuria.
Ne avevo abbastanza.
Il che però non significa che sia diventato del tutto sordo e incapace di scorgere le ingiustizie e di rabbrividire alle assurdità, da qualunque parte del mondo arrivino. Purtroppo, non sono ancora un monaco che guarda le acque del tempo scorrere e le rovine della storia accumularsi senza alzare un sopracciglio. Quindi, poniamo, se l’attuale presidente Usa prende provvedimenti sulla scorta dei quali certi bambini finiscono dentro una gabbia (esatto, dentro una gabbia) perché figli di immigrati, be’, non è che la cosa mi lasci indifferente. Ecco uno di quei casi in cui c’è poco da discutere, anzi non c’è nulla da discutere. Bambini in gabbia? Stop, fine della discussione ancora prima di iniziarne una, giù la saracinesca, nessun tavolo da aprire, non c’è destra o sinistra che tengano, io ho ragione e tu hai torto, o meglio: io non ho niente, non ho neanche bisogno di avere ragione e di spiegarla e di difenderla, sei tu che fai schifo. Punto. E fine del discorso, di ogni discorso. Siamo fuori da qualsiasi possibile discorso, quando bambini finiscono dentro una gabbia.
Bambini in gabbia, ma porca puttana, non è possibile…!
Bambini in una gabbia!!
Ma se per caso ti scappa detto, o nemmeno lo dici ma ti limiti solo a imprecare per lo stupore che qualcuno in un Paese cosiddetto civile metta bambini in gabbia (non m’interessa sapere la ragione legale di questo, non voglio saperla, non me ne frega niente, non esiste cavillo o provvedimento cautelativo o ratio concepibile che giustifichi il fatto di aver ficcato bambini in una gabbia, porca puttana!), tempo due minuti si alzerà il solito controcanto: «Eh, ma allora, voi di sinistra, che coraggio avete a parlare, voi che i bambini ve li mangia- vate, voi che avete combinato questo e quello» ecc. ecc.
Sempre la solita solfa, questa specie di risposta automatica, che si sbriga a rispedirti la palla nel tuo campo…
Ma insomma, guardate che io, un campo, non ce l’ho, non sto giocando a ping-pong con nessuno, lasciate perdere per un momento ’sta storia di destra e sinistra, cosa diavolo c’entrano adesso la destra o la sinistra? È una faccenda assai più semplice, elementare, che sta prima della politica e molto, ma molto al di là di qualsiasi calcolo o manovra o posizione, non serve affatto essere cattolico o laico o progressista per dire no ai bambini in gabbia! No e poi no!
Bambini in gabbia?
Giornalisti e professori di scuola e universitari arrestati in massa, impiegati pubblici licenziati per rappresaglia?
Reporter ammazzati perché avevano scritto contro il governo?
Sette donne incinte e novanta minori senza famiglia naufragati? A cui si nega di sbarcare perché rappresentano una minaccia all’ordine pubblico, in realtà per giocare a Monopoli con l’Europa? E lasciati altri otto giorni nel mare in burrasca?
Ma di che stiamo parlando?
Fatela finita con questa storia!
Fatela finita una buona volta!!
Fatela finita con questo ping-pong, giocateci tra di voi, rimpallatevele tra di voi, le malefatte!
Destra e sinistra, destra e sinistra… oh, mamma mia. E basta co’ ’sta filastrocca! Basta!!
Bambini in gabbia. Naufraghi che se ne stanno «in crociera». Non ci si crede…
Eh no, mi dispiace, qui non si discute, non si ragiona, non ci si sposta di un millimetro. Mai. Mai di un millimetro.
A tutto questo si tratta solo di opporre, come diceva George Grosz, UN GRANDE NO.
E chiuso il discorso.
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Tutti
Come corollario, vorrei che venisse moderato se non completamente abolito, nel discorso corrente, l’uso del soggetto «tutti». Tutti dicono, tutti pensano, tutti sono stanchi di, tutti non sopportano più che, tutti sono d’accordo con… tutti amano, tutti odiano…
Uno va al cinema e amaramente scopre che il film è brutto, non gli piace… «Eppure, tutti dicevano che era bellissimo…!» (a me è successo, tanto per fare un esempio, con La forma dell’acqua, Leone d’Oro a Venezia, quattro Oscar). Ma tutti chi? Chi erano, chi sono questi tutti? I giornali? La tv? Il tam-tam? Il passaparola? I social network? I votanti dell’Academy? Non si capisce. Eppure lo si dice e ci si crede. «Tutti» è una generalizzazione quasi mai veritiera, anzi, mai. Forse «alcuni», o «parecchi», ma mai «tutti» pensano e dicono e vogliono la stessa cosa. È impossibile. Ci sarà sempre qualcuno che non sarà d’accordo, che dirà «no», «non così», «non è vero», «questo non mi piace per niente», «preferirei di no».
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