La terribile storia di una persona che era a bordo della Diciotti
L'ha raccontata Annalisa Camilli su Internazionale, e parla di torture, estorsioni, compravendita di esseri umani e stupri
La giornalista Annalisa Camilli ha raccontato su Internazionale la storia di una persona che era a bordo della nave militare italiana Diciotti e che dal 21 agosto si trova a Frosinone, ospitata nella diocesi della città. Giona, originario di una città al confine tra Eritrea e Sudan, ha raccontato a Camilli la terribile storia del viaggio che lo ha portato fino alla barca con cui ha provato ad attraversare il Mediterraneo, lo scorso agosto, per raggiungere le coste italiane. La storia di Giona, simile a quelle di molti altri migranti, parla di torture, estorsioni, compravendita di esseri umani, stupri e bambini nati morti in un carcere sotterraneo in Libia. Giona, ha scritto Camilli, «è sopravvissuto e ora vuole denunciare l’orrore di cui è stato vittima e testimone».
Il desiderio di Giona è raggiungere i Paesi Bassi, dove vive sua zia, per poter trovare un lavoro e ricomprare la casa che la sua famiglia ha dovuto vendere per permettergli di arrivare in Europa.
Giona non è reticente a parlare, intreccia una parola dopo l’altra, nomi e numeri del tragitto che ha percorso dalla sua città – Tessenei, al confine tra Eritrea e Sudan – fino all’appartamento in cui si trova quando lo incontro, nella diocesi di Frosinone, in Italia, il 31 agosto, dove è arrivato dopo essere sceso dalla nave Diciotti della guardia costiera italiana. Settemila chilometri di un gioco dell’oca in cui è rimasto intrappolato insieme a sua moglie e ai suoi compagni, rischiando molte volte di perdere la vita. A ogni tappa si è augurato di morire, proprio come il profeta della Bibbia di cui porta il nome. Ma alla fine è sopravvissuto e ora vuole denunciare l’orrore di cui è stato vittima e testimone: estorsioni, torture, compravendita di esseri umani, stupri, bambini nati morti in un carcere sotterraneo.
Ricorda i nomi dei trafficanti, i soldi che a ogni tappa la sua famiglia sparsa ai quattro angoli del mondo ha dovuto versare per liberarlo, i nomi dei compagni, il numero delle persone che c’erano in ogni carcere in cui è stato rinchiuso e quello di quelle morte. Vuole parlare. Si sente un sopravvissuto e vorrebbe che chi è rimasto indietro fosse liberato. “Ci sono almeno tremila eritrei nel carcere di Nesma in cui sono stato rinchiuso prima di partire. Il trafficante che li tiene prigionieri si chiama Abdesalam, è eritreo. Chiunque possa fare qualcosa dovrebbe intervenire. L’unica strada è evacuare i migranti dai lager libici che sono come l’inferno”.
Ha vissuto in Libia per un anno e tre mesi, e per tutto il tempo è stato recluso. Per molti mesi è stato sepolto vivo insieme a centinaia di migranti, quasi tutti eritrei, in un carcere sotterraneo a Beni Walid. Non entrava né aria né luce, un piatto di cibo al giorno da condividere con gli altri. “Con un piatto di pasta mangiavamo in sette”, racconta. È stato venduto da un trafficante eritreo a un gruppo di libici che a loro volta lo hanno venduto ad altri libici, poi è tornato nelle mani dell’eritreo a Nesma, una città a sud di Tripoli, in un centro di detenzione sovraffollato in cui dovevano fare a turno per dormire, perché non c’era spazio per stendersi a terra tutti insieme.
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