L’ultima provincia siriana in mano ai ribelli
Cos'è rimasto di Idlib, «roccaforte dei ribelli» e dei jihadisti, e destinazione di centinaia di migliaia di sfollati provenienti da tutta la Siria
Da molto tempo la provincia di Idlib, nel nord ovest della Siria, è il posto dove si rifugiano i siriani sfollati e i ribelli costretti a lasciare i territori sotto il loro controllo. A Idlib vanno quelli che non accettano di vivere sotto il regime di Bashar al Assad, perché hanno paura delle ritorsioni o del servizio militare, e quelli che vogliono restare nel loro paese nonostante gli ormai molti anni di guerra. Oggi questa zona viene considerata «l’ultima roccaforte» dei ribelli siriani nella loro guerra contro Assad, ma l’impressione è che quando il regime attaccherà, aiutato dagli aerei russi e dalle milizie sciite appoggiate dall’Iran, per i ribelli non ci sarà molto da fare. A quel punto, si chiedono in molti: cosa ne sarà dei tre milioni di persone che vivono a Idlib, quando non ci saranno altri posti dove andare?
La situazione a Idlib è complicata, e la popolazione civile si trova in un certo senso in mezzo a due fuochi: da una parte i ribelli jihadisti, che in questa zona della Siria sono la forza prevalente e che da diverso tempo hanno iniziato a combattersi tra loro e con i ribelli moderati; dall’altra parte il timore di subire ritorsioni da parte del regime di Assad, le cui forze di sicurezza sono state spesso accusate di agire in maniera violenta e arbitraria. Quello che temono diverse organizzazioni umanitarie è un eventuale esodo da Idlib, che potrebbe iniziare per esempio in caso di attacco del regime: per il momento la situazione è sotto controllo, ma rimane precaria e Assad ha espresso più volte la sua volontà di riconquistare tutta la Siria, pezzo a pezzo.
Cos’era Idlib
Fino a prima del marzo 2011, data dell’inizio della guerra civile in Siria, Idlib era una «provincia dimenticata», dice un lungo articolo dell’Atlantic; era un posto che i giovani volevano lasciare per cercare opportunità altrove. L’economia era in crisi, a causa soprattutto dei lunghi periodi di siccità che avevano devastato interi raccolti, e gli agricoltori non potevano più permettersi di comprare il carburante per i macchinari perché il regime aveva cancellato le sovvenzioni pubbliche. Anche qui, come in altre zone della Siria, nel marzo 2011 iniziarono le proteste per lo più pacifiche contro il regime di Assad, che per anni aveva governato in maniera autoritaria il paese. Le forze di sicurezza risposero con la forza e presto l’opposizione si organizzò in gruppi armati e prese il controllo di diverse città della provincia. Per molti le opzioni erano solo tre: unirsi ai ribelli, combattere per il regime o andarsene.
Nella primavera del 2015 – nel momento peggiore di Assad, quando il regime sembrava spacciato – i ribelli conquistarono Idlib, che divenne la prima provincia sotto il loro completo controllo.
Le cose in Siria cominciarono a cambiare nell’autunno del 2016, quando il regime, appoggiato dagli aerei russi, riprese a vincere, spesso usando una strategia molto violenta: bombardando le aree residenziali e assediando le città, fino a ottenere la resa dei ribelli. Una volta firmata la tregua – che spesso prevedeva la possibilità per i ribelli di andarsene con le loro famiglie e con le loro armi leggere – ribelli e popolazione potevano scegliere di farsi trasportare nella provincia di Idlib, con gli ormai famosi autobus verdi del regime. Maryam, una donna il cui nome è stato cambiato dall’Atlantic per ragioni di sicurezza e che proviene da Ghouta orientale, ha raccontato come andavano le cose durante gli attacchi e come funzionavano queste evacuazioni:
«Andavamo nelle cantine perché semplicemente non era possibile stare nei nostri appartamenti. Il regime non risparmiava niente e nessuno. Durante i bombardamenti, il regime apriva i «corridori umanitari» per incoraggiare i residenti ad andare nei territori controllati dal governo. Alcune persone se ne andavano perché pensavano di avere solo tre opzioni: morire sotto i bombardamenti, morire durante l’avanzata del regime, o prendersi il rischio di usare i corridoi. Molti di quelli che se ne andarono pensavano, “non ho fatto niente, non ho combattuto, non ho fatto attivismo. Perché dovrei stare qui e andare incontro quasi certamente alla morte?” Quelli che sceglievano di rimanere a Ghouta, come me, erano sicuri al 100% di non avere possibilità di rimanere vivi sotto il governo di Assad.
Conosciamo persone che non hanno fatto niente durante la rivolta o la lotta armata. Sono andati nelle aree del regime e sono stati imprigionati lo stesso. Immagina cosa sarebbe potuto succedere a un’attivista come me»
La situazione peggiorò in fretta e i bombardamenti del regime e dei suoi alleati si intensificarono, provocando centinaia di migliaia di sfollati diretti verso Idlib. Maryam ha raccontato così l’evacuazione: «Passammo attraverso città della costa filo-regime. Le persone si riunivano ai lati della strada insultandosi e facendo gesti osceni. Eravamo tra i primi ad andarcene, quindi ci beccammo solo gli insulti, ma poi sentimmo di un finestrino di un autobus rotto e di qualche ferito. A un certo punto cambiammo autobus ed entrammo a Idlib. Fu come fare un viaggio dall’inferno al paradiso.»
Cos’è oggi Idlib
Con il passare del tempo, però, Idlib divenne sempre meno un “paradiso” e sempre più qualcos’altro. Negli ultimi due anni la popolazione locale è cresciuta moltissimo: ancora oggi i flussi di sfollati sono costanti e circa i due terzi di chi abita la provincia hanno bisogno di assistenza medica. Molte delle persone che oggi vivono a Idlib hanno lasciato le loro case e altri rifugi tre, quattro o anche cinque volte. La situazione è peggiorata una prima volta all’inizio del 2018, quando le forze governative hanno cominciato ad avanzare da sud e da est, mettendo pressione sui ribelli e portando la provincia vicina al collasso. A febbraio Russia e Turchia hanno però raggiunto un accordo per dispiegare forze turche sul fronte di guerra, riducendo di fatto gli scontri tra ribelli e regime. Poco dopo le cose sono tornate a peggiorare, quando le fazioni dei ribelli, in prevalenza jihadiste, hanno iniziato a combattere tra di loro.
Il rafforzamento delle milizie jihadiste ha cambiato anche diversi aspetti della vita quotidiana in alcune zone della provincia, per esempio nelle regole sull’abbigliamento per le donne e sulla separazione di genere nelle scuole. Tra i gruppi più intransigenti c’è Tahrir al Sham, quello che una volta era il Fronte al Nusra (la divisione siriana di al Qaida), che in diverse zone ha preso anche il controllo della riscossione delle imposte sostituendosi a quello che prima faceva il regime. In diverse città gli uomini di Tahrir al Sham sono riusciti ad entrare nei comitati di coordinamento locale, condizionandone le politiche.
Uno dei pochi motivi per cui la provincia non è ancora collassata sono gli aiuti umanitari che arrivano dal confine con la Turchia, ma che sono comunque insufficienti a reggere le richieste della popolazione. La Turchia si è impegnata a dispiegare soldati sul fronte di guerra tra ribelli e regime, secondo alcuni per evitare la caduta di Idlib. Quella della Turchia non sarebbe solo una valutazione politica interna alla guerra in Siria – la Turchia ha sempre appoggiato i ribelli, anche se la sua politica ha cominciato a diventare più ambigua e meno oppositiva verso Assad quando la priorità per il governo turco è diventata quella di combattere i curdi; il governo turco potrebbe anche voler evitare la caduta di Idlib, che potrebbe portare centinaia di migliaia di siriani a riversarsi verso il confine turco.
Jamal, un profugo di Aleppo, ha detto all’Atlantic: «Le persone dicono, “se ci cacciano fuori da Idlib, dove andiamo?” Né la Turchia né l’Europa né nessun altro accoglie ancora i profughi. Quindi non ve lo nascondo: ci sono persone che appoggiano lo scenario in cui il regime riconquista Idlib. Sono stanche. Vogliono che il regime torni qui così che possano tornare a fare una vita normale». Non è chiaro quello che succederà a Idlib ora: la Turchia e la Russia potrebbero accordarsi per continuare a mantenere lo status quo, almeno per ora, ma è difficile che la situazione possa andare avanti come ora ancora per molto tempo.