La Cina vuole arrivare prima di tutti sui sistemi di sorveglianza di massa
E ha trovato il modo per farlo: sfruttare i dati biometrici dei volti degli africani, vendendo le proprie tecnologie allo Zimbabwe
Una parte importante dell’imponente piano della Cina per diventare entro il 2025 la principale potenza mondiale nello sviluppo di nuove tecnologie passa per i mercati dei paesi in via di sviluppo, e in particolare per quelli africani. La Cina domina già alcuni dei settori più importanti: nel 2017 la società di Shenzhen Transsion Holdings è stata per esempio la prima nel mercato degli smartphone. Ma le ambizioni cinesi in Africa non si limitano solo alla presenza sul mercato: coinvolgono anche lo “sfruttamento” dei paesi africani come laboratori per migliorare le proprie tecnologie.
In quest’ultima categoria rientra un accordo appoggiato dal governo cinese e firmato tra la startup CloudWalk Technology, con sede a Guanzhou, e il governo dello Zimbabwe. L’accordo, raccontato di recente in un lungo articolo di Foreign Policy, riguarda un settore di grande interesse strategico per la Cina: le tecnologie di intelligenza artificiale legate alla sorveglianza di massa. CloudWalk, infatti, si occupa di sistemi di riconoscimento facciale, tecnologie sulle quali la Cina sta investendo e sperimentando molto e attorno a cui sta costruendo una specie di stato di polizia basato sulla sorveglianza dei propri cittadini.
L’aspetto eticamente controverso delle tecnologie sviluppate da CloudWalk ha avuto un ruolo nella scelta dello Zimbabwe come interlocutore in Africa per il progetto cinese. Il partito comunista cinese e il regime autoritario e repressivo di Robert Mugabe, che ha governato il paese tra il 1980 e il 2017, sono stati storici alleati, e l’ex presidente africano è sempre stato interessato nello sviluppo dei sistemi di sorveglianza di massa. Nel 2015 accettò in regalo dal governo iraniano un software di cybersorveglianza usato per intercettare le conversazioni telefoniche, e nel 2016 disse esplicitamente di voler imitare i metodi cinesi di controllo sui social network. Vista l’incerta situazione politica dello Zimbabwe seguita all’estromissione di Mugabe, lo scorso novembre, l’accordo firmato ad aprile era stato sospeso in attesa delle elezioni del 30 luglio. Il vincitore è stato però il presidente uscente Emmerson Mnangagwa, ex consigliere e alleato di Mugabe, già al governo quando l’accordo era stato firmato.
In breve, l’accordo prevede lo sviluppo di un sistema di sorveglianza di massa simile a quello cinese, specialmente per quanto riguarda i sistemi di riconoscimento facciale. Se lo Zimbabwe otterrà le infrastrutture, a CloudWalk e alla Cina arriverà una quantità enorme di nuovi dati, che il governo spera di usare per migliorare le intelligenze artificiali, specialmente per quanto riguarda il riconoscimento di volti di persone di etnie diverse, uno dei principali problemi del settore a livello mondiale. Le tecnologie che verranno installate e sperimentate in Zimbabwe non saranno solo telecamere di sicurezza, ma anche sistemi di tracciamento finanziario e di sicurezza agli aeroporti e alle stazioni, secondo il giornale statale cinese Science and Technology Daily.
In Zimbabwe non esistono leggi che proteggono la privacy dei cittadini per quanto riguarda i dati biometrici e il tentativo di estendere la repressione del dissenso con le nuove tecnologie va avanti da tempo: soltanto l’anno scorso una nuova legge vietò la diffusione di notizie false online, uno strumento già utilizzato in Cina come forma di censura. In teoria l’infrastruttura di riconoscimento facciale servirà a ridurre il crimine, e secondo Eric Olander, giornalista e fondatore di China Africa Project, un podcast sui rapporti tra Cina e Africa, bisognerebbe concedere al nuovo governo dello Zimbabwe il beneficio del dubbio per quanto riguarda gli impieghi delle tecnologie ottenute con l’accordo con CloudWalk. Secondo Olander, il governo zimbabwiano è stato costretto a usare i dati dei propri abitanti come merce di scambio con la Cina, in mancanza di altre risorse da offrire. I termini economici dell’accordo non sono stati diffusi.
In molti però sono meno ottimisti. Secondo Natasha Msonza, co-fondatrice della Digital Society of Zimbabwe, «sembra che CloudWalk stia cercando delle cavie. Non credo che il governo abbia pensato abbastanza a lungo a questa decisione prima di proporre i suoi cittadini come volontari per questo esperimento di riconoscimento facciale». Kuda Hove del Media Institute of Southern Africa ha detto a Foreign Policy che in passato sistemi ufficialmente pensati per ridurre il crimine sono stati usati per limitare la libertà di espressione e per altre forme di repressione del dissenso.
Degli sforzi della Cina per sviluppare il miglior sistema di sorveglianza di massa del mondo, e di come questo progetto passi in larga parte per i sistemi di riconoscimento facciale, si parla da tempo. Uno dei posti in cui queste infrastrutture sono più avanzate è lo Xinjiang, una regione autonoma del nord-ovest della Cina abitata soprattutto dagli uiguri, minoranza etnica musulmana accusata dal governo cinese di separatismo e terrorismo. L’infrastruttura cinese nello Xinjang è imponente e complessa, e funziona attraverso decine di migliaia di telecamere e una vastissima quantità di dati raccolti nel tempo, ma anche su una quantità spropositata di forza lavoro. Non è quindi pensabile che il sistema di sorveglianza in Zimbabwe si avvicini a quello cinese, in quanto a efficacia.
Anche per questo, diversi osservatori hanno invitato a considerare l’accordo tra Cina e Zimbabwe soprattutto dal punto di vista del guadagno della Cina. Quella dello sviluppo dei sistemi di riconoscimento facciale è, a livello mondiale, una specie di gara a chi arriverà per primo a mettere a punto un sistema affidabile. Acquisendo i dati biometrici degli abitanti dello Zimbabwe, la Cina spera quindi di portarsi avanti nella risoluzione di un problema che da anni attanaglia aziende come Microsoft e IBM, leader mondiali nei sistemi di riconoscimento facciale. Megvii, la terza azienda del settore, è cinese.
I dati biometrici delle persone africane sono particolarmente importanti, nello sviluppo di sistemi di riconoscimento più precisi. Ci sono studi che hanno rilevato che il riconoscimento nei principali software ha una percentuale di errore dell’1 per cento quando analizza uomini con la carnagione chiara, e fino al 35 per cento nei casi di donne nere. Questo perché a livello mondiale le intelligenze artificiali alla base dei sistemi di riconoscimento artificiale sono state sviluppate principalmente con i dati di uomini bianchi o asiatici. Secondo il New York Times, uno dei principali database usati dai sistemi di riconoscimento facciale contiene oltre il 75 per cento di volti di uomini e oltre l’80 per cento di volti bianchi.
Questa asimmetria ha già causato degli incidenti notevoli per le società che operano nel settore: nel 2015, Google si dovette scusare pubblicamente dopo che la sua app Google Foto riconobbe dei gorilla nelle foto di alcune persone nere. E questa inefficacia nel riconoscimento dei neri ha portato qualcuno a chiedere alla polizia americana di non usare sistemi simili, per il pericolo che portino a scambi di persona. I problemi nell’utilizzo di questi software da parte della polizia sono comunque ancora più estesi: una sperimentazione sul campo nel Regno Unito ha mostrato recentemente una percentuale di errore del 91 per cento.
Non si sa come stiano procedendo le sperimentazioni in Cina, che sta costruendo il suo database usando i dati biometrici dei suoi 1,3 miliardi di cittadini, che non rappresentano però un campione molto eterogeneo dal punto di vista etnico. Un’eccezione è proprio lo Xingjang, dove vivono diversi milioni di uiguri, che per le loro origini medio orientali hanno caratteristiche fisiche che li differenziano rispetto alla maggior parte dei cinesi.