Daniele Silvestri ha 50 anni
Dodici canzoni di uno dei migliori cantautori della sua generazione, oltre a quella che conoscono tutti
Daniele Silvestri è un cantautore italiano fra i più apprezzati della sua generazione, e oggi compie cinquant’anni: vale la pena riascoltare le sue dodici canzoni migliori, quelle che il peraltro direttore del Post Luca Sofri aveva scelto per il suo libro Playlist, la musica è cambiata.
Daniele Silvestri (1968, Roma)
Una volta scrissi che era l’artista più simile a Robbie Williams che avevamo in Italia. I suoi fans si offesero. In effetti lui sa scrivere testi molto migliori (anzi, sa scrivere testi, semplicemente). Ed è il migliore songwriter della sua generazione. Ma è anche un brillante entertainer pop, che sa raccontare cose serie e appassionate senza sottrarsi ad arrangiamenti leggeri e spiritosi, o viceversa.
Amarsi cantando
(Daniele Silvestri, 1994)
“Mi sento umile, mi sento umido, non puoi lasciarmi fuori casa quando piove così tanto,
che carogna sei.
Almeno tirami l’impermeabile,
ti prego non mi cancellare dalla tua esistenza,
dammi una speranza o almeno un buon K-way”
. Poi citazioni musicali beatlesiane e citazioni letterarie cocciantesche.
Domani mi sposo
(Prima di essere un uomo, 1995)
“Domani mi sposo, ne sono felice, si sente dal tono con cui lo si dice. Una piccola chiesa alle undici e venti, hanno deciso ogni cosa i suoi amici e i parenti.
Lei sarà così vicino a me che ne potrò sentire l’alito pesante,
che in un solo istante mi travolgerà. Sarà così vicino a me che non potrò non apprezzare
il forte odore che proviene dai suoi piedi. “Credimi
è bella, è bella, è bella, è bella, è bella tua sorella, ma lei no.
Lei però la sposerò”.
Cohiba
(Il dado, 1996)
Si può discutere l’adesione acritica al mito cubano, ma è uno dei più potenti inni rock della storia della musica italiana, una sorta di “La locomotiva” della generazione successiva. «Cohiba è un atto d’amore nei confronti del mito di Cuba, non della realtà. È un inno, anche ingenuo, astorico, sulla leggenda del Che. Racconto la fantasia, più che la realtà». Il verso e la rima “altrimenti non si spiega come faccia, a vedere in uno stato in miniatura questa orribile minaccia” riempiono la bocca come una scorpacciata di ciliegie. Quando Silvestri la canta dal vivo, è una delle esperienze più eccitanti che si possa fare a un concerto: “Venceremos, adelante, o victoria o muerte!”.
Un giorno lontano
(Il dado, 1996)
Come far funzionare ancora una volta un tema arcitrito da antologia della canzone d’amore: ti-ho-persama-non-riesco-a-levarmiti-dalla-testa. E tutto mi parla di te eccetera. E un refrain fatto solo di una “u”.
Hold me
(Il dado, 1996)
“Ma non è questa stupida lingua, è la vita degli altri, che insegna e ferisce, e domani ci dividerà”. Ansie di un amore appena nato, forse balneare. Lei parla inglese e la prende alla leggera, lui è già fulminato e disperato al pensiero che finisca. Silvestri alle prese con il falsetto.
Giro in si
(Sig. Dapatas, 1999)
Lei è ancora la ragazza anglofona di “Hold me” (o un’altra?) e lui la soffoca, ha bisogno di spazio. Lui incassa e implora. Come in “Amarsi cantando”, Silvestri ha caro il rapporto tra le storie d’amore e la loro espressione attraverso la musica e le parole della musica. Senza farsi mancare la battuta “se mi lasci ti denuncio”.
Insieme
(Sig. Dapatas, 1999)
Una tristissima considerazione sugli amori con problemi di comunicazione: “c’è gente che si ama divisa da un muro e da dietro la porta per stare al sicuro. Ma se la porta si apre, è successo anche a me, puoi scoprire che l’altro non c’è”. E grande assolo di chitarra finale.
Tu non torni mai
(Sig. Dapatas, 1999)
Ci girava intorno da un po’, ma qui fece la vera canzone dei Beatles. Più Lennon che McCartney, periodo psichedelico. A dirla tutta, l’andamento ricorda anche “Aria” di Dario Baldan Bembo (da non confondersi con “Aria” dello stesso Silvestri). Bellissima.
Aria
(Sig. Dapatas, 1999)
Al secondo Festival di Sanremo – prima di decidere di giocare (e vincere) la partita con “Salirò” – Silvestri fece come se quello fosse un posto normale. Un posto dove uno andava con una canzone forte, tesa, dalla costruzione originale, su un ergastolano: come se fosse normale. Come se fosse normale andare a Sanremo a cantare di carcere.
Salirò
(Unò-dué, 2002)
La canzone della svolta. Il botto, lo strabotto. Andò a Sanremo e venne giù il loggione (complice l’esibizione travoltiana e travolgente del fantastico attore-ballerino Fabio Ferri, che quasi gli rubava la scena). Non ce la staccammo più di dosso per tutta l’estate successiva, con tutto il repertorio di citazioni dance d’annata e il testo bislacco: «Già, di che parlava? Ogni tanto qualcuno cerca di spiegarmi cosa ne ha capito, e io gli dico che ha ragione. Ma in realtà fu una cosa anomala per me, una canzone fondata sul ritornello, con le parole che vanno dietro alla musica, al salire degli accordi. Potrei dirti che è una canzone sull’archetipo del toccare il fondo e risalire, ma è soprattutto un testo fatto di suoni».
Mi persi
(Il latitante, 2007)
Gran bella canzone dolce, con qualche istantanea accelerazione alla Silvestri. Il video era una cosa alienata e alienante, con autobus, scafandri da astronauta, e sua moglie Simona Cavallari. La tromba è di Demo Morselli, in uno dei suoi molti nobili momenti lontano dal teatro Parioli di Roma.
Gino e l’alfetta
(Il latitante, 2007)
Un altro pezzaccio da ballare a squarciagola, alla “Salirò”. Fu scelta come canzone del Gay Pride romano del 2007. “Maria, sei sempre mia, sei l’unica, possibile. Ma di Gino, io mi fido un po’ di più”.