Cosa c’entrano le concessioni autostradali con il ponte Morandi?
È il sistema con cui la gestione delle autostrade italiane è stata affidata a gruppi privati: e secondo il governo è un problema
«I vertici di Autostrade per l’Italia devono dimettersi», ha detto mercoledì mattina il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli, commentando il crollo del ponte Morandi a Genova, in cui sono morte 39 persone. «Visto che ci sono state gravi inadempienze – ha scritto Toninelli su Facebook – annuncio fin da ora che abbiamo attivato tutte le procedure per l’eventuale revoca delle concessioni, e per comminare multe fino a 150 milioni di euro». Secondo il ministro, quindi, la responsabilità dell’incidente appartiene ad Autostrade per l’Italia, la società controllata dalla famiglia Benetton responsabile per il tratto di strada su cui si trovava il ponte crollato. Il vice presidente del Consiglio e capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio ha detto una cosa simile, così come il ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Le accuse del governo hanno riportato di attualità il tema della privatizzazione delle concessioni autostradali, il meccanismo con il quale alla fine degli anni Novanta venne affidata ai privati la gestione di gran parte della rete autostradale italiana. Per anni, giornalisti ed esperti hanno criticato questo sistema, sostenendo che permetteva ai gestori delle autostrade di arricchirsi senza rischi e senza l’obbligo di fare sufficienti investimenti sulla rete autostradale. In molti ora si domandano se il sistema delle concessioni non abbia contribuito anche all’incidente di Genova, e il ministro Toninelli ha suggerito che in futuro lo stato potrà prendere il posto dei privati.
Breve storia delle concessioni
Le autostrade italiane, comprese quelle gestite da Autostrade per l’Italia, sono un bene di proprietà dello stato, ma sono state spesso gestite da società “concessionarie” che gestiscono la rete autostradale e ne raccolgono i profitti pagando in cambio un canone allo stato. Fino non molti anni fa queste società erano a loro volta pubbliche: proprietà degli enti locali oppure dell’IRI (una società controllata dal ministero del Tesoro che aveva il compito di controllare numerose altre società pubbliche). Essendo società pubbliche, lo stato era molto generoso con loro. Le concessioni venivano allungate senza gara e ai concessionari venivano offerte condizioni molto favorevoli, così che i bilanci di IRI e degli enti locali proprietari rimanessero in ordine (e magari i guadagni potevano essere utilizzati per coprire magagne da altre parti).
Con la crisi degli anni Novanta lo stato si ritrovò però con un enorme debito pubblico da gestire e senza più le risorse necessarie a finanziarie i continui investimenti necessari a migliorare la rete. Venne quindi deciso di privatizzare alcune concessionarie, in modo da un lato di fare cassa e dall’altro di sfruttare capitali privati per i nuovi necessari investimenti. La più importante tra le società che furono privatizzate fu la Società Autostrade, di proprietà dell’IRI, che controllava in tutto 3 mila chilometri di autostrade, metà dell’intera rete del paese, tra cui l’A1 Autostrade del Sole, da Milano a Napoli, un tratto della A4 tra Milano e Brescia, l’intera A14, da Bologna a Taranto, e il tratto dell’A10 tra Genova e Savona, quello sui cui, nel 1967, era stato costruito il Ponte Morandi. Le concessioni su queste tratte sarebbero scadute soltanto nel 2038 e c’erano possibilità di allungarle ulteriormente.
Ad ottenere il controllo della Società Autostrade all’inizio del 2000 fu la famiglia Benetton, un gruppo di industriali della moda che grazie al successo del loro marchio si erano trasformati in finanzieri con società che si occupavano anche di altro. Grazie alle loro buone relazioni con le banche, alla loro capacità di creare alleanze con altri gruppi industriali ed alcune abili e spregiudicate operazioni finanziarie, i Benetton riuscirono in pochi anni a ottenere il controllo totale della Società Autostrade (tirando fuori pochissimi soldi di tasca propria e finanziando gran parte dell’operazione a debito).
Dopo una serie di fusioni e consolidamenti, nel 2002 la società divenne Autostrade per l’Italia, un colosso che oggi fattura 4 miliardi di euro all’anno e produce 900 milioni di euro di utile per il suo azionista, la società Atlantia, controllata dalla famiglia Benetton (qui trovate la relazione finanziaria 2017). I Benetton riuscirono nell’operazione che cambiò completamente il loro gruppo (oggi il marchio Benetton – quello della moda – vale meno di un decimo della società autostradale) non solo grazie alle loro buone relazioni, ma anche perché quello in autostrade era considerato un investimento sicuro più che un’impresa che poteva comportare dei rischi. Non fu difficile, quindi, raccogliere i capitali e gli alleati che servivano alla famiglia per realizzare l’investimento.
Le autostrade sono infatti un monopolio, un’impresa senza concorrenti e quasi senza rischi. Chi vuole andare in macchina da Roma a Firenze non ha scelta se vuole viaggiare in tempi accettabili: deve prendere l’autostrada. Di fatto il gestore deve solo limitarsi a riscuotere i pedaggi e a rispettare gli obblighi imposti dallo stato: ad esempio una quantità minima di investimenti nella rete e il rispetto degli standard di manutenzione.
Per lungo tempo, però, i dettagli di queste condizioni sono rimasti segreti. Soltanto lo scorso gennaio il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha deciso di rendere pubblici gli atti che regolano i rapporti tra stato e concessionari. Alcuni dettagli importanti, però, rimangono ancora oggi segreti. L’Autorità dei trasporti, che ha bisogno di questi dati per valutare l’operato dei concessionari, lamentava già nel 2015 che mancavano i dati che riguardano «gli investimenti aggiuntivi che si intendono fare da quelli già previsti nelle convenzioni in essere e non realizzati», un elemento fondamentale per comprendere se i concessionari stanno o meno rispettando i patti.
Anche a causa di questa mancanza di supervisione pubblica il sistema non è riuscito nei suoi obiettivi: negli anni gli obblighi si sono attenuati o non sono stati fatti rispettare. I governi hanno fatto sconti e favori a gruppi come quello dei Benetton, mentre i concessionari hanno effettuato pochissimi investimenti. Nel frattempo le tariffe autostradali sono aumentate, i concessionari si sono arricchiti, ma il servizio offerto è rimasto, sostanzialmente, immutato. Come ha riassunto Giorgio Ragazzi, professore di economia e autore del libro “I padroni delle autostrade“:
Nel complesso, i risultati conseguiti dalla regolazione delle autostrade italiane dal 1997 ad oggi sembrano davvero fallimentari. Non si ha evidenza di miglioramenti significativi nell’efficienza di costo, al di là dell’applicazione di sistemi automatici di esazione già avviati nel periodo precedente (e i costi delle nostre concessionarie sembrano molto maggiori di quelli francesi). Gli investimenti previsti, sulla base dei quali le concessionarie ottennero nel 1999 lunghe proroghe delle concessioni e incrementi di tariffa, non sono stati realizzati se non in piccola parte. Le concessionarie hanno invece registrato enormi extraprofitti.
Le concessioni e l’incidente
Le ragioni di questo trattamento apparentemente di favore sono varie e in parte non ancora del tutto indagate. Secondo i critici, i governi hanno spesso chiuso un occhio di fronte agli sproporzionati guadagni dei concessionari in cambio dell’impegno dei loro gruppi industriali su altri fronti. Altrettanto difficile da determinare è se il sistema delle concessioni abbia comportato un abbassamento nella qualità dei controlli di sicurezza.
Nei tratti autostradali in concessione spetta ai privati la verifica delle condizioni di sicurezza e gli interventi di manutenzione. Questo significa che i responsabili del tratto della A10 su cui si trovava il ponte Morandi sono i dirigenti e gli azionisti di Autostrade per l’Italia. Ma per condannarli a pagare una multa o per revocare loro la concessione, come chiede di fare il ministro Toninelli, bisogna dimostrare che la società ha commesso una colpa grave nella gestione del ponte. Una fonte istituzionale di alto livello ha detto all’agenzia di stampa AGI che riuscire a dimostrarlo è «estremamente improbabile» visto che «la società ha regolarmente rispettato i piani di controllo ed intervento stabiliti in accordo con il ministero dei Trasporti».
C’è un sostanziale accordo da parte degli esperti sul fatto che Autostrade per l’Italia abbia svolto tutti i controlli necessari per la legge, un’affermazione che i manager della società hanno ripetuto più volte. Alcuni però ritengono che questi controlli non fossero sufficienti. «Autostrade è, di fatto, l’unico controllore di sé stesso – hanno scritto Roberto Sculli e Matteo Indici sul quotidiano genovese Secolo XIX – esegue con personale proprio ispezioni e (auto)certificazioni, oppure le affida a consulenti pagati dalla medesima società. Nessun ente pubblico compie screening autonomi, perversione d’una norma le cui conseguenze possono essere catastrofiche». Sculli continua:
Che obblighi di vigilanza aveva Autostrade per l’Italia? Chi esegue le verifiche? Quanto può metterci il naso lo Stato? Poiché il viadotto è stato realizzato nel 1967, il gestore non deve fornire un piano di manutenzione (il diktat vige per chi ha in carico le strutture nate dal ‘99 in poi). Non solo. Autostrade esegue per legge due tipi d’ispezione, certificate una volta compiute: trimestrale con personale proprio (controlli sostanzialmente visivi) e biennale con strumenti più approfonditi. In quest’ultimo frangente, al massimo, la ricognizione viene affidata a ingegneri esterni, ma alla fine sempre pagati da Autostrade. Né gli enti locali, né il ministero delle Infrastrutture intervengono con loro specialisti. E di fatto non esistono certificazioni di sicurezza recenti che non siano state redatte da tecnici retribuiti da Autostrade per l’Italia.