La crisi della lira turca continua
La moneta della Turchia ha perso il 9 per cento nei primi scambi di lunedì, con effetti anche sui mercati asiatici e sull'euro: c'entra una crisi diplomatica con gli Stati Uniti
La crisi della lira turca iniziata venerdì scorso è ulteriormente peggiorata lunedì mattina all’apertura dei mercati. La lira ha perso quasi il 9 per cento nei primi scambi e l’euro ha raggiunto il suo valore minimo dell’ultimo anno, a causa della paura degli investitori che la crisi finanziaria turca si allarghi ai mercati europei. All’apertura dei mercati, la lira ha toccato il minimo di sempre a 7,24 per un dollaro, a causa dell’annuncio di domenica notte della banca centrale turca di limitare per le banche turche gli scambi tra lira e valute straniere.
La crisi era iniziata dopo che il presidente statunitense Donald Trump aveva annunciato di voler raddoppiare i dazi sull’acciaio e sull’alluminio provenienti dalla Turchia, come ritorsione per la decisione di un tribunale turco di estendere la detenzione di Andrew Brunson, un pastore americano accusato di spionaggio per conto dei curdi. Dopo l’annuncio di Trump, e l’imposizione di sanzioni individuali statunitensi contro due ministri del governo turco, il presidente Recep Tayyip Erdoğan aveva parlato di «guerra economica» contro gli Stati Uniti e aveva fatto appello alla retorica religiosa e nazionalista che lo aveva fatto rieleggere lo scorso giugno: tra le altre cose, ha incolpato gli speculatori e i nemici internazionali della Turchia per la crisi, e ha sostenuto che «se loro hanno i dollari, noi abbiamo dalla nostra la gente, la giustizia e Dio».
La crisi dell’economia turca ha avuto ripercussioni anche sui mercati asiatici: in Giappone l’indice Nikkei ha perso l’1,7 per cento, la borsa di Hong Kong l’1,8 per cento, quella di Shanghai l’1,7 per cento, quella di Sydney lo 0,5 per cento. Lunedì mattina il ministro dell’Economia turco Berat Albayrak, genero di Erdoğan, ha annunciato un piano per sostenere la lira turca, rimasto però finora molto vago e senza apparenti benefici.
Secondo il Financial Times, il 40 per cento del patrimonio del settore bancario turco è costituito da titoli di debito denominati in valuta estera, i cui interessi devono quindi essere ripagati in monete rispetto alle quali la lira turca vale sempre meno (e quindi ne servono sempre di più). Ma a essere fortemente indebitate con l’estero sono anche le imprese. Il Sole 24 Ore ha scritto che le banche italiane sono esposte per 16,9 miliardi di dollari con la Turchia, molti meno degli 84 miliardi delle banche spagnole e dei 37 miliardi di quelle francesi, più o meno come la Germania e il Regno Unito. UniCredit possiede però il 40,9 per cento di Yapi Kredi, quarta banca privata della Turchia. Secondo quanto riporta il Sole, «nel primo semestre il contributo di Yapi Kredi al conto economico di UniCredit è stato di 183 milioni di euro. Si tratta, comunica la banca, di meno del 2% dei ricavi del gruppo».
A luglio l’inflazione ha infatti raggiunto un tasso annuale di quasi il 16 per cento, ma Erdoğan si è sempre rifiutato di decidere un rialzo dei tassi di interesse, lo strumento principale con cui le banche centrali posso cercare di limitare la quantità di denaro in circolazione e così aumentarne il valore. Venerdì Erdoğan aveva invitato i cittadini turchi a difendere la valuta locale: «Se c’è qualcuno che ha dollari, euro o oro sotto il cuscino dovrebbe uscire e farseli cambiare in banca». I dubbi ora riguardano proprio la strategia che applicherà il governo. Un’opzione percorribile sarebbe quella degli aiuti da parte del Fondo Monetario Internazionale, ma ci sono molti dubbi che Erdoğan li accetti, perché vorrebbe dire mettersi in una posizione subordinata e di debito rispetto all’Occidente, alleato che sta progressivamente allontanando per avvicinarsi alla Russia di Vladimir Putin.