Il Canada ha trovato la soluzione all’immigrazione?
È uno dei paesi al mondo con la più alta percentuale di stranieri, il multiculturalismo è tutelato dalla costituzione e non ha partiti xenofobi: perché?
Negli ultimi anni, Europa e Stati Uniti sono attraversati da un’ondata di xenofobia che non si vedeva da tempo. I partiti nazionalisti e xenofobi hanno visto i loro consensi aumentare, mentre quasi ovunque cresce il numero dei crimini d’odio razziale e religioso. In tutto il mondo sviluppato un solo paese sembra fare eccezione ed essere riuscito a trovare un delicato bilanciamento tra il rispetto di valori come apertura e tolleranza e la stabilità politica interna: il Canada.
Come ha scritto il giornalista Derek Thompson in un discusso articolo pubblicato sul settimanale The Atlantic:
Il Canada ha avuto livelli eccezionali di immigrazione senza subire un contraccolpo populista e illiberale. È il paese più inclusivo al mondo nei confronti dei migranti, della religione e della sessualità, secondo un sondaggio realizzato da IPSOS nel 2018. In una classifica sui principali valori dei canadesi, il multiculturalismo è indicato subito dopo l’inno nazionale e subito prima della bandiera.
I liberali di tutto il mondo guardano al Canada come a un modello, uno dei pochi luoghi al mondo dove l’integrazione tra culture differenti è riuscita a produrre una società unita, fondata sui valori dell’accoglienza e della tolleranza. Nel 2016, al termine di una delle più brutali campagne elettorali che gli Stati Uniti ricordino, l’Economist pubblicò un’illustrazione che riassumeva questa situazione: raffigurava la Statua della Libertà decorata con la foglia d’acero, il simbolo nazionale canadese, sotto la scritta: “la libertà si sposta a nord”.
Il Canada è stato definito il primo “stato postnazionale” al mondo, dove il legame che unisce i suoi cittadini non è basato su una lingua e una cultura comuni, ma sul valore transnazionale dell’apertura e della tolleranza. Per alcuni è un modello a cui anche le altre nazioni dovrebbero aspirare.
Ma le cose non sono così semplici. Il Canada è un paese che sta cambiando, anche se in maniera meno visibile e in una direzione meno chiara degli Stati Uniti. Ma soprattutto è un paese con una storia e una geografia uniche al mondo, che aiutano a spiegare la sua strana natura di “stato postnazionale” e che la rendono difficile da esportare o da imitare.
Grande, freddo e lontano
Nell’articolo su The Atlantic, Thomson ammette che il Canada possiede una serie di tratti che lo rendono un paese abbastanza unico: «Il Canada è grande, è freddo e a meno che qualcuno non stia cercando di fare il giro del Polo Nord, è più o meno lontano da qualsiasi cosa». La sua geografia lo rende diverso da quasi ogni altro paese al mondo. Il Canada è circondato dall’Oceano Pacifico, dall’Atlantico e dal Polo Nord, mentre l’unico confine che possiede con un altro stato è quello con gli Stati Uniti, che è anche il paese più ricco e stabile del mondo.
Questo significa che il Canada è isolato e che quindi non ha mai corso il rischio di essere esposto a improvvise e disordinate ondate migratorie come invece è accaduto spesso all’Europa e agli Stati Uniti. I migranti che arrivano in Canada lo fanno in maniera selezionata e controllata, dopo che il governo ha deciso chi far entrare e a quali condizioni. I canadesi non conoscono il fenomeno dei centri di accoglienza di fortuna e i loro telegiornali non hanno mai mostrato loro stazioni piene di migranti accomodati in sistemazioni di fortuna.
Ma c’è anche un altro vantaggio in questa situazione, nota Thomson: il Canada è pieno di spazio da riempire. Negli Stati Uniti, il paese dei grandi spazi per eccellenza, abitano 32 persone per chilometro quadrato. Per gli standard europei sono pochissimi: in Italia gli abitanti per chilometro quadrato sono oltre 200. Ma il Canada, con i suoi 3,9 abitanti per chilometro quadrato, fa sembrare persino gli Stati Uniti un affollato quartiere di Hong Kong. Tanto spazio libero significa anche molta terra da sfruttare e molto spazio dove chi non ha voglia di incontrare i suoi vicini può isolarsi. E significa anche che i governi di tutti i colori hanno sempre avuto forti incentivi a far entrare nel paese persone che quella terra potessero sfruttarla.
Una storia pacifica
Il Canada ha iniziato a formarsi come nazione moderna a metà del XVIII secolo, quando durante la Guerra dei sette anni (quella raccontata nel romanzo L’ultimo dei mohicani) la Gran Bretagna strappò alla Francia il Quebec, quella che ancora oggi è la regione francofona del paese. Da allora, il Canada non ha sostanzialmente più conosciuto alcuna guerra sul suo territorio, fatta eccezione per qualche incursione durante la Rivoluzione americana e durante la Guerra del 1812. Il Canada ha partecipato a molte guerre, tra cui entrambi i conflitti mondiali, ma nessun esercito nemico ha mai varcato le sue frontiere e le sue città non sono mai state bombardate o messe a ferro e fuoco da un esercito alla ricerca di bottino.
Questa fortuna è dovuta ancora una volta alla geografia e al fatto che i canadesi hanno sempre avuto buoni rapporti con l’unica nazione che avrebbe facilmente potuto invaderli, gli Stati Uniti. La differenza con l’Europa è notevole: praticamente nessun paese del vecchio continente è stato risparmiato da un’invasione e chi non l’ha subita ha comunque dovuto prendere serie precauzioni nel timore che potesse avvenire. È molto più difficile sviluppare una cultura tollerante se per secoli ci si è abituati a considerare i propri vicini come minacce alla propria esistenza.
La questione religiosa
La conquista del Quebec ebbe anche un’altra conseguenza: nei territori coloniali britannici, a maggioranza protestante, si inserì una numerosa minoranza cattolica, formata dai coloni francesi. Il primo atto della famosa tolleranza canadese si può far risalire proprio a quegli anni, quando nel 1774 il governo britannico decise di garantire ai cattolici di lingua francese la libertà di culto e quella di mantenere i loro costumi e le loro tradizioni, a patto che questi ultimi in pubblico accettassero la legge britannica.
In questo compromesso, scrive Thomson, si vede gran parte della storica differenza tra Canada e Stati Uniti. Questi ultimi nacquero da una lotta senza quartiere il cui risultato poteva essere solo libertà o morte. Il Canada, invece, fu il risultato di una trattativa condotta in tempi di pace in cui tutte le parti accettavano di cedere qualcosa in nome della pacifica convivenza.
Ancora i francesi
La presenza di una forte minoranza di francesi ha avuto anche altre conseguenze nel corso della storia canadese. I rapporti che essa ha avuto con la maggioranza anglofona non sono sempre stati sereni e nel corso degli anni Sessanta il nazionalismo francofono iniziò a diventare una minaccia che i politici canadesi dovettero considerare seriamente. Per placare la situazione, nel 1969 venne ufficialmente introdotto il bilinguismo, una soluzione che appariva a molti soltanto temporanea. I nazionalisti francofoni erano pronti a fare nuove richieste, mentre i conservatori anglofoni pensavano che lo stato canadese avesse già fatto troppe concessioni.
Proprio in quegli anni però, l’immigrazione nel paese, fino a quel momento rappresentata soprattutto da europei, iniziò a cambiare. I non-europei provenienti da Asia, Africa e America Latina divennero la maggioranza dei nuovi immigrati. Normalmente, il loro arrivo sarebbe stato considerato una minaccia all’integrità culturale del paese e i conservatori avrebbero formato un blocco per contrastarla. In Canada, però, i difensori dell’identità tradizionale avevano da tempo un nemico ben più pericoloso dei nuovi immigrati: i francofoni.
In breve si sviluppò una sorta di alleanza tra i nuovi immigrati e i conservatori anglofoni. L’idea che c’era alla base era che le richieste dei francofoni non avevano ragione d’essere: per quale motivo doveva essere riconosciuta loro una preminenza che veniva negata ai nuovi migranti che proprio in quegli anni stavano iniziando a popolare il paese? Sostenere le rivendicazioni dei migranti divenne così un modo per screditare le richieste dei francofoni. Questa presa di posizione portò a un compromesso che regge ancora oggi. Nel 1971 Pierre Trudeau, il primo ministro padre dell’attuale primo ministro Justin Trudeau, dichiarò il multiculturalismo una politica ufficiale del governo canadese. Dieci anni dopo, nel 1982, il multiculturalismo venne inserito nella costituzione del paese all’interno della famosa “Sezione 27“.
Il futuro del Canada
Secondo Thompson, la lezione principale che insegna il Canada è che una volta che l’immigrazione ha raggiunto una certa soglia, la tolleranza diventa un fenomeno che si autoalimenta. Quando una percentuale consistente della popolazione è nata all’estero o comunque non si identifica completamente con la popolazione nativa, i politici non possono più ignorare i loro voti. In questo contesto, “prima i canadesi” rischia di essere uno slogan che assicura la disfatta elettorale. Per questo è possibile assistere a competizioni elettorali come le primarie del partito conservatore dell’anno scorso, in cui i vari candidati si sfidavano su “quanti” migranti accogliere, senza considerare l’ipotesi di non accoglierli.
Ma se i leader conservatori possono permettersi di discutere su quanti migranti vogliono accogliere, lo devono soprattutto alle caratteristiche uniche del loro paese e all’isolamento che permette loro di scegliere, invece che dover fronteggiare improvvisi afflussi incontrollabili. Inoltre, il paragone con i paesi europei all’epoca della più grave crisi migratoria del dopoguerra rischia di far dimenticare che anche il Canada non è un paese perfettamente tollerante ed accogliente. Pochi giorni fa, la giornalista Stacy Lee Kong ha ricordato che anche in Canada gli episodi di violenza motivata dal razzismo sono in aumento e che per quanto non sia al momento politicamente rappresentata, nel paese esiste una minoranza determinata che vorrebbe mettere “prima i canadesi”.
Il Canada è un paese accogliente e tollerante, ma non è detto che lo rimanga per sempre. Le condizioni che hanno portato il paese a inserire il multiculturalismo addirittura nella sua Costituzione possono cambiare e non è impossibile che presto o tardi il Canada finisca con l’assomigliare di più agli Stati Uniti o ai paesi europei. Ma, come sostiene Thompson, è possibile anche il contrario. Se i politici conservatori dovessero iniziare a vedere nell’immigrazione un potenziale serbatoio di voti invece che una minaccia in grado di galvanizzare i propri elettori, potrebbero essere l’Europa e gli Stati Uniti a finire per assomigliare un po’ di più al Canada.