Cosa succede all’economia turca
Ieri la lira turca è crollata per una crisi diplomatica con gli Stati Uniti, e c'è molta preoccupazione su come gestirà la questione Erdogan
La crisi della lira turca è ulteriormente peggiorata dopo che venerdì il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato che raddoppierà i dazi sull’acciaio e sull’alluminio provenienti dalla Turchia. La lira turca ha perso oltre il 20 per cento del suo valore rispetto al dollaro dopo l’annuncio di Trump, un crollo arrivato dopo mesi di andamento negativo: da gennaio la valuta ha perso circa il 40 per cento del suo valore rispetto al dollaro.
L’aumento dei dazi di Trump ha peggiorato una crisi diplomatica in corso tra Turchia e Stati Uniti, iniziata con l’arresto da parte delle autorità turche di un predicatore evangelico americano accusato di terrorismo e di complicità con gli autori del tentato colpo di stato del 2016. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha parlato di “guerra economica” contro gli Stati Uniti e ha fatto appello alla retorica religiosa e nazionalista che lo ha fatto rieleggere lo scorso giugno, incolpando gli speculatori e i nemici internazionali della Turchia per la crisi e sostenendo che «se loro hanno i dollari, noi abbiamo dalla nostra la gente, la giustizia e Dio».
I have just authorized a doubling of Tariffs on Steel and Aluminum with respect to Turkey as their currency, the Turkish Lira, slides rapidly downward against our very strong Dollar! Aluminum will now be 20% and Steel 50%. Our relations with Turkey are not good at this time!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) August 10, 2018
I mercati internazionali hanno risentito gravemente della crisi dell’economia turca. I primi a essere stati colpiti sono i mercati emergenti: il rand sudafricano, il peso argentino e il rublo russo hanno perso tra l’1,5 e il 3,5 per cento. Ma è presto arrivata anche in Europa, dove l’euro ha perso l’1,2 per cento, toccando il minimo rispetto al dollaro da un anno a questa parte. Ci sono infatti importanti banche, come la spagnola BBVA, l’italiana UniCredit e la francese BNP Paribas, che hanno prestato molto denaro alla Turchia e rischiano di subire forti perdite se i loro debitori inizieranno a non essere più in grado di restituire il denaro ricevuto in prestito.
Secondo il Financial Times, il 40 per cento del patrimonio del settore bancario turco è costituito da titoli di debito denominati in valuta estera, i cui interessi devono quindi essere ripagati in monete rispetto alle quali la lira turca vale sempre meno. Ma a essere fortemente indebitate con l’estero e fragili sono anche le imprese. Il Sole 24 Ore dice che le banche italiane sono esposte per 16,9 miliardi di dollari con la Turchia, molti meno degli 84 miliardi delle banche spagnole e dei 37 miliardi di quelle francesi, più o meno come la Germania e il Regno Unito. UniCredit possiede però il 40,9 per cento di Yapi Kredi, quarta banca privata del paese. Secondo quanto riporta il Sole, «nel primo semestre il contributo di Yapi Kredi al conto economico di UniCredit è stato di 183 milioni di euro. Si tratta, comunica la banca, di meno del 2% dei ricavi del gruppo».
A luglio l’inflazione ha infatti raggiunto un tasso annuale di quasi il 16 per cento, ma Erdoğan si è sempre rifiutato di decidere un rialzo dei tassi di interesse, lo strumento principale con cui le banche centrali posso cercare di limitare la quantità di denaro in circolazione e così aumentarne il valore. Venerdì ha invitato i cittadini turchi a difendere la valuta locale: «Se c’è qualcuno che ha dollari, euro o oro sotto il cuscino dovrebbe uscire e farseli cambiare in banca».
I dubbi ora riguardano proprio la strategia che applicherà Erdoğan. L’agitazione dei mercati europei è in buona parte dovuta ai dubbi sulle capacità di leadership di Erdoğan in questo momento. Un’opzione percorribile sarebbe quella degli aiuti da parte del Fondo Monetario Internazionale, ma ci sono molti dubbi che Erdoğan li accetti, perché vorrebbe dire mettersi in una posizione subordinata e di debito rispetto all’Occidente, alleato che sta progressivamente allontanando per avvicinarsi alla Russia di Vladimir Putin.
Erdoğan ha un forte controllo personale sull’economia turca, essendosi assicurato il diritto di nominare personalmente il capo della banca centrale e avendo nominato suo genero, Berat Albayrak, come nuovo ministro dell’Economia. Secondo gli esperti, la soluzione alla crisi turca passa per una serie di scelte a breve termine dolorose, ma che avranno effetti positivi a lungo termine. La banca centrale dovrebbe alzare immediatamente i tassi di interesse e il governo turco dovrebbe accettare la recessione che questo provocherebbe, riducendo gli stimoli fiscali che rischiano di rendere inefficace il rialzo dei tassi di interesse. Erdoğan dovrebbe ricucire i rapporti con gli Stati Uniti e inserire nel governo nuovi nomi che possano ridare fiducia agli investitori. Per alcuni, la posizione del presidente turco, al potere oramai da 15 anni, è così salda che potrebbe senza difficoltà tornare sui suoi passi e attuare almeno una parte di queste misure senza perdere credibilità.
L’accentramento di potere su Erdoğan è però principalmente un motivo di sfiducia per gli investitori: perché Albayrak non ha particolari esperienze economiche e non è conosciuto a livello internazionale, e perché si sospetta che Erdoğan sia ormai incapace di ammettere di aver sbagliato, e abbia finito con il credere alle bizzarre teorie del complotto internazionale che il suo stesso entourage ha fabbricato, senza curarsi delle conseguenze per il paese.
Una conferma in questo senso è la gestione della crisi diplomatica nata intorno al pastore evangelico arrestato, Andrew Brunson. Il governo statunitense ha definito false e assurde le accuse nei suoi confronti, ma ha comunque offerto condizioni molto vantaggiose in cambio della liberazione dell’uomo. Erdoğan ha però alzato ulteriomente la posta e alla fine ha abbandonato le trattative. La preoccupazione dei governi europei è anche che la crisi porti Erdoğan a ripensare gli accordi sull’immigrazione, che hanno diminuito drasticamente il flusso di migranti che arrivano in Europa passando per la Turchia.
Wilbur Ross, segretario del Commercio americano, ha spiegato che l’aumento dei dazi dal 25 al 50 per cento è stato deciso perché non erano abbastanza alti da ridurre sufficientemente le esportazioni di acciaio e alluminio negli Stati Uniti (una situazione che rispecchia la disputa dei mesi scorsi con l’Europa sullo stesso argomento). Nel 2017, la Turchia ha esportato 1,5 milioni di tonnellate di acciaio negli Stati Uniti, il suo principale paese di esportazione.