La ribellione alla democrazia liberale inizia da qui
Dall'Ungheria, che guarda con sempre più diffidenza al sistema occidentale, e da Viktor Orbán, prima amico di Bill Clinton e oggi estimatore di Putin ed Erdoğan
Il 26 luglio 2014, venti giorni dopo le elezioni che avevano rinnovato il Parlamento in Ungheria, il primo ministro ungherese Viktor Orbán fece uno dei suoi discorsi più famosi. Il partito di Orbán aveva appena stravinto le elezioni e lui era stato riconfermato a capo del governo. Orbán si trovava in visita in Romania, nella piccola città di Băile Tușnad, e disse: «La nazione ungherese non è una semplice somma di individui, ma una comunità che ha bisogno di essere organizzata, rafforzata e sviluppata, e in questo senso il nuovo stato che stiamo costruendo è uno stato illiberale, uno stato non-liberale». Poi aggiunse di ragionare sul fatto che «i sistemi non Occidentali, non liberali, non democrazie liberali, forse nemmeno democrazie, costruiscano comunque delle nazioni di successo», e concluse dicendo che oggi le «star delle analisi internazionali» sono Russia, Cina e Turchia.
Non era la prima volta che Orbán mostrava diffidenza e scetticismo nei confronti della democrazia liberale, e da un certo punto di vista quel discorso non fu una grande sorpresa. Eppure chi aveva seguito la politica ungherese nei precedenti 15 anni aveva conosciuto due Orbán diversi, ha raccontato il Wall Street Journal: quello illiberale della cittadina rumena di Băile Tușnad, e quello formato a Oxford, apprezzato da Bill Clinton, sostenitore della NATO e oppositore delle influenze russe in Ungheria. Cos’era successo?
Orbán divenne per la prima volta capo del governo nel 1998 e mantenne la carica fino al 2002. In quei quattro anni si fece conoscere per essere un sostenitore della NATO e dell’Unione Europea, le due organizzazioni che avrebbero garantito all’Ungheria di sganciarsi dall’influenza russa.
In Ungheria, però, era spesso trattato con superiorità dagli altri politici liberali, soprattutto per le sue origini. Orbán era cresciuto in un anonimo paesino della campagna ungherese, con un padre autoritario che lo picchiava, e nei primi anni non sembrava essere troppo a suo agio a Budapest, sede delle istituzioni e del governo. Nel 2002 Orbán perse le elezioni e non fu rieletto. Negli otto anni successivi, passati all’opposizione, le sue idee politiche cominciarono a cambiare. Orbán iniziò per esempio ad allontanarsi dagli Stati Uniti, in parte perché si sentiva umiliato dall’allora presidente americano George W. Bush, che lo aveva accusato di non denunciare l’antisemitismo in Ungheria, e in parte perché secondo lui il governo americano non faceva abbastanza per assicurare all’Ungheria l’accesso a risorse energetiche non russe.
Orbán tornò al potere nel 2010, dopo la crisi economica e finanziaria globale che secondo molti, tra cui il capo del governo ungherese, aveva messo in crisi il modello occidentale. Orbán pensava che il “sistema occidentale” avesse fallito, che l’ordine uscito dalla fine della Guerra fredda fosse entrato in crisi e che un nuovo modello – quello russo illiberale, a cui guardava con sempre maggior interesse – potesse diventare una valida alternativa.
La diffidenza di Orbán verso le democrazie liberali, e la sua contemporanea fascinazione nei confronti di regimi autoritari, si è trasformata negli ultimi anni in progressivo avvicinamento dell’Ungheria alla Russia di Vladimir Putin. Non si parla solo di affinità ideologiche e simpatie verso un certo modo di governare. Negli ultimi anni, ha scritto il Wall Street Journal citando funzionari statunitensi e ungheresi, i servizi di intelligence russi hanno cominciato a considerare l’Ungheria come la loro base avanzata in Europa e le potenti società energetiche russe hanno firmato accordi segreti con il governo di Orbán, accordi che hanno finito per arricchire gli oligarchi ungheresi.
Il progetto più importante tra quelli messi in cantiere negli ultimi anni è quello dell’espansione dell’unica centrale nucleare in Ungheria, che si trova nella cittadina di Paks, vicino alle rive del Danubio, e che fornisce circa il 40 per cento dell’elettricità consumata nel paese. Invece che aprire un bando pubblico seguendo le regole dell’Unione Europea – che anche l’Ungheria è obbligata a rispettare – nel 2014 Orbán strinse un accordo con la società russa Rosatom, accettando di acquistare due nuovi reattori per 12 miliardi di euro, pagati grazie a un enorme prestito dello stato russo: i russi si sarebbero occupati di tutto – del progetto e anche dei lavori – ma i dettagli del piano non sono stati resi pubblici: il governo ungherese ha votato per secretare l’accordo per i prossimi 30 anni.
Per il governo russo, Orbán è oggi un’occasione da non lasciarsi sfuggire, ma non è la sola. Il sistema che si era imposto in un pezzo di mondo alla fine della Seconda guerra mondiale – quello “occidentale”, basato tra le altre cose sul modello della democrazia liberale e forte di una solida alleanza tra Stati Uniti ed Europa – è entrato in crisi. Paesi che un tempo mostravano fascinazione per l’Europa e aspiravano a farne parte, tra cui l’Ungheria di Orbán e la Turchia di Erdoğan, oggi guardano a modelli diversi, modelli illiberali e spesso nemmeno democratici, incarnati per lo più nel regime autoritario della Russia di Vladimir Putin. Allo stesso tempo sembra essere entrata in crisi anche l’alleanza occidentale: i rapporti tra l’Europa e gli Stati Uniti di Trump sono ai minimi storici, l’Unione Europea fatica ogni giorno di più a trovare soluzioni alle molte crisi che deve affrontare e in diversi paesi europei sono emersi partiti sovranisti e nazionalisti, spesso anti-europeisti.
David Koranyi, analista dell’Atlantic Council di Washington ed ex funzionario della sicurezza nazionale ungherese, ha detto al Wall Street Journal: «Orbán crede davvero che l’Occidente sia in declino e che i giorni per l’Unione Europea e la NATO siano contati. È pragmatico abbastanza per tenere l’Ungheria nella UE e nella NATO, almeno per ora, perché queste due organizzazioni gli danni soldi e sicurezza, cose che hanno ancora valore». Nel frattempo, però, Orbán ha cominciato a trasformare l’Ungheria in un vero e proprio stato illiberale: ha riscritto la Costituzione per avere più poteri, ha ridisegnato i distretti elettorali per favorire il proprio partito, ha rafforzato il proprio controllo su tribunali e media, e ha stretto accordi per assicurarsi il gas russo.