Lunga vita ai microfilm
Oggi li associamo solo a certi vecchi film di spie, ma sono affidabilissimi e tra 500 anni potremmo usarli ancora (mica come le VHS, i floppy disk o i DVD)
I microfilm sono un sistema di archiviazione analogico su pellicola fotografica. Sono considerati uno strumento obsoleto e superato (da biblioteca degli anni Settanta, da film horror o da spie della Guerra fredda) ma sono invece ancora usati e utili perché, rispetto ad altri più recenti sistemi di archiviazione, sono più affidabili. È probabile, per esempio, che tra un paio di secoli ci saranno ancora documenti conservati e consultati su microfilm. Cosa che non si può dire di diversi altri supporti che, per via della loro obsolescenza progressiva, saranno difficili da leggere tra cento anni. Anzi, lo sono anche oggi: ve ne siete accorti l’ultima volta che avete pensato di guardare una VHS o usare un CD-ROM (e per molti anche un DVD).
Prima di parlare della storia dei microfilm, qualche riga per chi non ne ha mai usato uno. Sono documenti microfilmati realizzati con speciali riproduttori fotografici, che mettono su pellicola le immagini e permettono poi di consultarle con dei microlettori che, semplicemente, ingrandiscono le immagini e permettono di scorrere velocemente tra una e l’altra.
I microfilm permettono di conservare i documenti in formato ridotto, da 15 a 48 volte rispetto all’originale; continuano a essere usati nonostante l’esistenza di supporti digitali perché per leggerli, anche senza un microlettore, bastano un po’ di luce e una lente di ingrandimento. I microlettori, invece, funzionano così:
I primi tentativi di micrografica si fecero nella prima metà dell’Ottocento, riducendo la grandezza dei dagherrotipi, un tipo di fotografia inventato dal francese Louis-Jacques-Mandé Daguerre nel 1837. Nella seconda metà dell’Ottocento la tecnica, che permetteva di riprodurre in pochi millimetri pagine che su carta occupavano diversi centimetri, fu usata per archiviare i primi giornali.
I microfilm diventarono però importanti solo nel Novecento, in particolare dopo che negli anni Venti e Trenta si fecero i primi brevetti di microlettori: quello che si impose sul mercato fu messo in commercio dalla Kodak nel 1935. Craig Saper ha scritto sull’Atlantic che «entro il 1938, le università iniziarono a conservare i documenti in microfilm» e che «durante la Seconda guerra mondiale la microfotografia diventò uno strumento dello spionaggio». Durante e dopo la guerra, i microfilm furono usati in tutti i principali paesi del mondo per conservare in modo più agile e sicuro ogni tipo di informazione e documento. Saper ha scritto che già nel 1943 l’archivio nazionale statunitense aveva copiato su microfilm più di 400mila pagine e che verso la fine degli anni Sessanta erano in circolazione circa 100mila rulli, ognuno in grado di ospitare circa 700 pagine.
I microfilm, che in quegli anni non avevano grande concorrenza con altri dispositivi di archiviazione, cominciarono ad avere dei problemi quando ci si accorse, come spiega questo articolo del New York Times del 1964, che col tempo si deterioravano. Comparivano cioè macchie gialle, rosse o arancioni e, per via dell’acetato contenuto nelle pellicole, iniziavano ad avere uno strano odore d’aceto. Il problema fu davvero risolto solo nei primi anni Novanta, quando Kodak introdusse microfilm in poliestere: non si deteriorano e si stima che dureranno almeno 500 anni.
I microfilm hanno nel frattempo resistito anche alla concorrenza delle microfiches, che esistono dal 1961 e, a differenza dei microfilm, mettono diverse pagine su un’unica piccola pagina, non su tante pagine diverse. I microfilm sono entrati un po’ in difficoltà quando i computer, i PDF (acronimo di “portable document format”) e poi internet hanno permesso di mettere moltissime più informazioni in moltissimo meno spazio. Continuano però a essere usati in svariati ambiti. La Germania, per esempio, conserva tutto il suo patrimonio artistico e culturale in microfilm: se srotolati e messi uno in fila all’altro, sarebbero lunghi 31.200 chilometri.