Il giorno in cui finì la DC
Venticinque anni fa il partito che aveva governato l'Italia dalla fine della guerra decise che era arrivato il momento di sciogliersi
«Per la precisione alle 17.45, al Palazzo dei congressi dell’Eur, sulle note di una curiosa Rapsodia europea che riunisce le note di tutti gli inni nazionali, la Democrazia Cristiana dopo mezzo secolo è uscita di scena». Così Repubblica descriveva il 26 luglio del 1993 la fine della Democrazia Cristiana, il partito che aveva governato l’Italia ininterrottamente fin dal Dopoguerra. Quel giorno di 25 anni fa l’ultimo segretario della DC, l’ex sindaco di Brescia Mino Martinazzoli, aveva messo ai voti la sua relazione conclusiva dopo tre giorni trascorsi nell’Assemblea costituente della DC, l’organo incaricato di rigenerare il partito duramente colpito dagli scandali, dalle inchieste della magistratura e da un crollo dei consensi che appariva inarrestabile.
«L’Assemblea», era scritto nel documento, «decide di dar vita al nuovo soggetto politico di ispirazione cristiana e popolare, destinato ad aprire la terza fase della presenza dei cattolici democratici nella storia d’Italia». La relazione assegnava pieni poteri al segretario per mettere in atto il processo di trasformazione che avrebbe portato all’azzeramento del tesserati e a quello di tutte le cariche di partito. Il cambiamento più grande e simbolico però sarebbe stato nel nome: la Democrazia Cristiana sarebbe scomparsa per lasciare il posto al Partito Popolare Italiano. La relazione venne votata da tutti i 500 delegati presenti. Ci fu un solo voto contrario.
Dopo mezzo secolo di egemonia politica, la fine del partito era arrivata in maniera rapida e sorprendente. Un anno prima dell’assemblea, alle elezioni dell’aprile del 1992, la Democrazia Cristiana aveva subìto un forte ridimensionamento, ma era ancora il più grande partito italiano con poco meno del 30 per cento dei voti, abbastanza da formare un governo di coalizione guidato dal socialista Giuliano Amato. La formula dell’alleanza con i socialisti funzionava oramai da un decennio. Il 1992 però non sarebbe stato un anno come gli altri.
Poco prima delle elezioni, a febbraio, era iniziata l’inchiesta “Mani Pulite” con l’arresto a Milano del dirigente socialista Mario Chiesa. Da lì le indagini dei giudici milanesi si allargarono molto: dai quadri locali dei partiti, i magistrati arrivarono presto a metterne sotto indagine i dirigenti nazionali (il 30 aprile fu il giorno in cui un gruppo di manifestanti lanciò monetine contro il segretario socialista Bettino Craxi, accusato dalla folla di essere l’incarnazione del sistema corruttivo).
Uno spot della DC per le elezioni del 1992
Mentre il sistema politico veniva sconvolto dalle inchieste, la situazione economica del paese continuava a peggiorare e, per salvare la situazione, a luglio il governo Amato dovette ricorrere a un espediente estremo per trovare risorse: un prelievo del 6 per mille dai conti correnti di tutti gli italiani. In quei mesi la mafia uccise prima il dirigente DC siciliano Salvo Lima e poi, in estate, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. L’anno si concluse con un attacco speculativo alla lira che minacciò di mettere di nuovo in grossa difficoltà l’economia del paese. Il 1993 iniziò con le indagini su alcuni dei leader DC più importanti: Giulio Andreotti, decine di volte ministro e presidente del Consiglio oltre che uomo simbolo del partito, venne accusato di crimini particolarmente odiosi, come l’associazione mafiosa e l’aver ordinato l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Arnaldo Forlani, ex segretario del partito, fu accusato di violazione della legge sul finanziamento ai partiti.
Ad aprile una serie di referendum, tardivamente appoggiati dalla DC, abrogarono il finanziamento pubblico ai partiti e la legge elettorale. A giugno, alle elezioni amministrative, il partito subì un’altra grave sconfitta. Per decenni gli avversari avevano accusato la DC di essere il partito delle tangenti e dei corrotti; ora che i magistrati avevano dimostrato che almeno una parte di quelle accuse era fondata, gli elettori sembravano intenzionati a punire severamente il partito. In questo clima di continui attacchi in molti iniziarono a pensare che il nome e i simboli della DC fossero oramai tossici, un peso più che un vantaggio, e dopo le elezioni di giugno la dissoluzione del partito acquistò improvvisamente velocità.
Alcuni, come Mario Segni, decisero di uscire dal partito e creare nuove formazioni politiche con cui cercare di intercettare il consenso in uscita dalla DC. Altri ritenevano invece che la DC potesse ancora salvarsi. Questi leader, quasi tutti provenienti dalla sinistra del partito, non erano ostili ai magistrati di Milano, il cosiddetto “pool Mani Pulite”, e ne avevano spesso incoraggiato l’opera. Invece che difendere orgogliosamente il sistema della Prima Repubblica, come aveva fatto Craxi, lo criticarono promettendo una “rigenerazione morale” del partito. Per raggiungere questo risultato la DC sarebbe dovuta passare per un azzeramento dei tesserati e dei dirigenti, e per un cambio del nome. La prima a trasformare queste idee in un gesto concreto fu l’allora segretaria della DC veneta, Rosy Bindi. All’inizio di luglio la DC veneta si sciolse trasformandosi nel Partito Popolare del Veneto.
Poche settimane dopo fu il partito nazionale a darsi appuntamento al Palazzo dei Congressi dell’Eur, a Roma, per votare su una trasformazione del tutto identica, ma questa volta che riguardava l’intera DC. L’Assemblea programmatica costituente, l’organo supremo del partito, si riunì a Roma il 24 luglio. Erano presenti 5-600 delegati. Il regolamento aveva escluso tutti coloro che fossero sotto indagine per reati gravi e contro la pubblica amministrazione: questo aveva spazzato via in un colpo solo quasi tutti i più importanti e storici leader del partito (non c’erano ad esempio Forlani, Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e Paolo Cirino Pomicino).
Ad aprire i lavori fu il nuovo segretario del partito, l’ex sindaco di Brescia Mino Martinazzoli, subentrato l’ottobre precedente ad Arnaldo Forlani. Tutti sapevano per quale ragione si erano ritrovati a Roma e quale sarebbe stato l’esito della riunione. Ai pochi che avessero avuto dei dubbi sarebbe bastato guardarsi intorno per capire cosa stava per accadere: in tutto il palazzo non era possibile trovare una sola sigla “DC”. L’unico simbolo ammesso era il vecchio scudo crociato bianco e rosso, senza scritte a parte quella latina “libertas”, oppure il nuovo simbolo creato per l’occasione, tre pennellate bianche, rosse e verdi.
Dopo l’introduzione della presidente dell’assemblea, Rosa Russo Jervolino, il segretario Martinazzoli si avvicinò ai microfoni per parlare. «È un tragitto fisico quasi irrilevante, di pochi passi», scrisse quel giorno il giornalista Giuseppe Sangiorgio sul quotidiano del partito: «Ma è al tempo stesso il grande salto nel nuovo di una formazione politica che non si chiamerà più Democrazia Cristiana e che diventerà il Partito Popolare». Il cambio del nome era il punto centrale delle 33 cartelle di cui era composto il suo programma di riforma, un piano radicale che prevedeva di snellire la struttura del partito dando molto più potere alle sue ramificazioni regionali. Due giorni dopo arrivò il momento di votare: Martinazzoli, con un solo voto contrario, ricevette l’autorizzazione del partito a mettere fine alla sua storia decennale.
Le sue speranze e quelle degli altri leader della sinistra DC, di salvare il grande bacino di voti del partito rigenerandone l’immagine, si rivelarono fallaci. Alle elezioni amministrative di novembre, nonostante la discontinuità con il passato annunciata da Martinazzoli, la DC raccolse appena l’11 per cento. Molti leader del centro e della destra della DC iniziarono a pensare che il piano dei loro rivali non fosse poi una così buona idea. Un gruppo di loro, tra cui Pierferdinando Casini e Clemente Mastella, uscì dal partito per formare il Centro Cristiano Democratico. Il 19 gennaio, dopo altre fuoriuscite, quel che restava della Democrazia Cristiana guidata da Martinazzoli sciolse ufficialmente il partito e diede vita al Partito Popolare Italiano. Esattamente una settimana dopo, Silvio Berlusconi annunciò con un messaggio diffuso in televisione che si sarebbe candidato alle elezioni anticipate previste quella primavera. Le elezioni del 27 e 28 marzo 1994 furono le prime dal 1946 in cui sulla scheda non era presente il simbolo della Democrazia Cristiana. La stragrande maggioranza di coloro che fino ad allora avevano barrato quella casella questa volta non scelse né i Popolari di Martinazzoli, né il Centro di Mastella. Il loro votò andò a Forza Italia e al suo leader Silvio Berlusconi.