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  • Domenica 22 luglio 2018

La guerra segreta degli Stati Uniti in Africa

I soldati americani compiono operazioni antiterrorismo appoggiandosi alle truppe locali: in teoria "consigliandole e assistendole", in pratica facendo molto di più

(MOHAMED ABDIWAHAB/AFP/Getty Images)
(MOHAMED ABDIWAHAB/AFP/Getty Images)

Negli ultimi anni le operazioni antiterrorismo delle forze speciali statunitensi in diversi paesi africani sono diventate sempre più numerose. L’amministrazione di Donald Trump era già stata interrogata al riguardo lo scorso novembre, dopo che era uscita la notizia dei quattro soldati americani uccisi in Niger durante un’operazione antiterrorismo compiuta insieme alle forze locali, e di nuovo lo scorso aprile, dopo che gli Stati Uniti avevano compiuto il loro primo attacco aereo contro miliziani di al Qaida nella Libia meridionale, un’area frequentata da molti islamisti radicali e jihadisti. Diversi giornalisti avevano chiesto chiarimenti al dipartimento di Stato e della Difesa, senza ottenere informazioni.

All’inizio di luglio Politico ha pubblicato una nuova inchiesta su questa storia e ha concluso che i soldati statunitensi continuino ad avere un ruolo molto più «diretto» nelle operazioni antiterrorismo in Africa rispetto a quello pubblicamente riconosciuto dal governo: non si limitano a consigliare e osservare, ma spesso prendono parte ai combattimenti.

Politico si è occupato di un tipo di missioni particolari, quelle che sono regolate dalla legge federale 127e, la principale riguardante le operazioni speciali per combattere il terrorismo. Sulla carta i soldati americani dovrebbero limitarsi a svolgere un ruolo di assistenza e consulenza alle truppe locali: significa per esempio che non possono partecipare direttamente ai combattimenti e che devono aspettare fino al termine dell’operazione per andare sul posto dell’attacco e raccogliere le informazioni di intelligence di cui hanno bisogno. È una collaborazione che in alcune situazioni può avvantaggiare anche dei paesi africani coinvolti, che ci guadagnano in termini di efficienza militare e di costruzione di legami migliori con gli Stati Uniti. Il problema, però, è che nella realtà spesso le cose non vanno così.

Riferendosi agli interventi statunitensi nelle operazioni antiterrorismo in Africa, un soldato americano delle forze speciali con esperienza in Africa occidentale ha detto a Politico: «È meno “Ti stiamo aiutando”, e più “Stai eseguendo i nostri ordini”». Nella sostanza finisce spesso che i governi africani decidano di “prestare” alcune delle loro unità militari alle squadre americane dell’antiterrorismo che si occupano, tra le altre cose, di difendere i cittadini e gli uffici diplomatici americani all’estero da minacce terroristiche. Queste squadre compiono «azioni dirette», partecipando quindi attivamente alle operazioni e non limitandosi a consigliare e osservare.

Un portavoce dell’United States Africa Command, il comando responsabile per le operazioni americane nel continente africano, non ha voluto specificare quali paesi africani abbiano collaborato di recente o stiano ancora collaborando con gli Stati Uniti nelle operazioni antiterrorismo sotto la norma 127e. Diversi funzionari americani ne hanno però individuati otto: Libia, Somalia, Kenya, Tunisia, Camerun, Mali, Mauritania e Niger. Negli ultimi anni un’attenzione particolare è stata riservata ai paesi dell’Africa nord-occidentale, che oltre a ospitare un gran via vai di jihadisti sono anche un punto di transito per i migranti che decidono di raggiungere la Libia per poi provare ad attraversare il Mediterraneo verso l’Italia. In Mauritania il programma è stato sospeso, dopo che il governo era stato accusato di “prestare” i propri soldati per fare gli interessi americani; in Niger invece ha attraversato diversi momenti di incertezza, soprattutto dopo l’uccisione dei soldati americani, lo scorso ottobre, in un attacco di cui il governo americano e nigerino diedero versioni diverse.

La partecipazione diretta dei soldati americani nelle missioni antiterrorismo in Africa ha cominciato da tempo a essere oggetto di critiche. Dopo gli anni delle guerre in Iraq e in Afghanistan, l’idea che l’esercito statunitense possa rimanere coinvolto in altri conflitti in Medio Oriente e Africa è estremamente impopolare. C’è però da tenere in considerazione che i costi di queste operazioni antiterrorismo sono molto contenuti: Joseph Votel, che è stato comandante delle forze americane in Medio Oriente, ha descritto al Congresso questo programma, definendolo «low-cost, di dimensioni ridotte e discreto», aggiungendo che negli ultimi anni ha portato a «centinaia di operazioni tattiche di successo, che sono costate solo una frazione del costo dell’intero programma». Sembra difficile quindi che il governo americano decida oggi di rinunciare a questi programmi, che permettono di colpire i sospetti jihadisti in maniera mirata e che però per il momento rimangono ancora semi-segreti.