La discussa sentenza della Cassazione sullo stupro di una donna ubriaca
Ha rinviato a un nuovo processo, per rivedere le pene al ribasso, due uomini che hanno stuprato in gruppo una ragazza
La terza sezione penale della Cassazione ha ordinato un nuovo processo per rivedere al ribasso le condanne stabilite in appello contro due uomini di cinquant’anni, accusati di stupro di gruppo contro una ragazza. I giudici hanno stabilito che la vittima era ubriaca e gli stupratori hanno approfittato delle sue condizioni di inferiorità per avere un rapporto forzato con lei, ma poiché la donna aveva assunto volontariamente l’alcol, alla pena dei due stupratori non può essere aggiunta alcuna aggravante. La sentenza ha causato molte reazioni negative soprattutto perché i giornali non l’hanno spiegato bene scegliendo titoli piuttosto ambigui. Per chi invece la sentenza l’ha capita è diventata una nuova occasione per mettere in discussione il modo in cui il codice penale italiano identifica e punisce le violenze sessuali permettendo di spostare parte dell’attenzione e della colpa sulla vittima e non su chi ha commesso effettivamente il reato.
I fatti sono avvenuti nel 2009. Due uomini e una ragazza avevano cenato insieme, lei aveva bevuto, i due l’avevano portata in camera da letto e avevano abusato di lei. Dopo qualche ora la donna era andata al pronto soccorso e aveva descritto quanto accaduto. Nel 2011 i due uomini erano stati assolti in primo grado da un giudice di Brescia, perché la donna non era stata riconosciuta attendibile. Poi, nel gennaio del 2017, la corte di Appello di Torino aveva considerato in modo diverso il referto del pronto soccorso che parlava di segni di resistenza, e aveva condannato i due uomini a tre anni applicando anche l’aggravante di «aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche». La difesa dei due imputati aveva presentato ricorso sostenendo che non c’era stata violenza da parte loro né riduzione a uno stato di inferiorità, dato che la ragazza aveva bevuto volontariamente. La Cassazione ha ora confermato la responsabilità dei due uomini nello stupro, ma ha annullato con rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado sul punto dell’aggravante.
Nella sentenza numero 32462 depositata ieri, lunedì 17 luglio, i giudici hanno scritto che la donna non poteva dare un «valido consenso» all’atto sessuale: hanno dunque confermato il reato di «violenza sessuale di gruppo con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica» della vittima. Ma hanno anche scritto che «l’assunzione volontaria di alcol esclude la sussistenza dell’aggravante» perché – per come è scritta la legge – «deve essere il soggetto attivo del reato» a usare l’alcol per la violenza «somministrandola alla vittima». Di conseguenza «l’uso volontario, incide sì sulla valutazione del valido consenso ma non anche sulla sussistenza aggravante».
Oggi in Italia la condotta tipica di violenza sessuale si verifica, secondo quanto scritto all’articolo 609 bis del codice penale, quando un soggetto «con violenza o minaccia o mediante l’abuso di autorità» ne costringa un altro «a compiere o a subire atti sessuali». La violenza sessuale si verifica anche quando c’è induzione a compiere o a subire atti sessuali «abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto» o «traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona». L’articolo 609 ter stabilisce poi le aggravanti della violenza sessuale e tra queste c’è il fatto che la violenza venga commessa «con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa». Il presupposto della sussistenza dei reati sessuali oggi in Italia è dunque innanzitutto la costrizione, cioè il contrasto tra la volontà di chi commette il reato e di chi lo subisce; ma anche l’induzione a un rapporto sessuale se l’altra persona non è in grado di dare il proprio consenso è considerato una violenza sessuale. Tale reato è aggravato nel caso in cui chi ha indotto o costretto sia anche responsabile di aver somministrato la sostanza intossicante.
Di conseguenza la Cassazione non ha stabilito che l’ubriachezza volontaria fosse stata un’attenuante. Ha stabilito che se una donna che ha bevuto viene stuprata, l’aggravante esiste solo se lo stupratore ha dato personalmente e intenzionalmente l’alcol alla vittima. La Cassazione insomma non ha teorizzato che lo stupro non c’era perché la vittima si era ubriacata: la violenza sessuale è stata riconosciuta. Ma la sentenza è stata comunque criticata dai movimenti femministi perché ogni caso va valutato nelle sue circostanze specifiche, visto che non sempre la circostanza aggravante corrisponde al classico farmaco sciolto di nascosto nel bicchiere o all’alcol somministrato con la forza. Al Corriere della Sera, la penalista Caterina Malavenda che non ha messo in discussione la legittimità della decisione della Cassazione ha infatti spiegato: «Certo, ora la Corte di Appello dovrà rivalutare tutto e, in particolare, capire chi ha fatto bere la vittima e perché. Tu puoi bere senza rendertene conto se c’è qualcuno che ti riempie continuamente il bicchiere. Ma perché lo sta facendo?».
La sentenza va in controtendenza con le discussioni più avanzate sulla violenza sessuale e il consenso, in cui – piuttosto che l’eventuale costrizione – è sempre più centrale il consenso esplicito, quello del “Sì significa sì”. Il consenso esplicito offre infatti, secondo molte, la protezione più adeguata anche a quelle donne che non sono in grado di esprimere chiaramente la loro mancanza di consenso, e il cui stupro avviene senza costrizione: perché scelgono di non reagire alla violenza per paura che la loro resistenza possa peggiorare la situazione, perché hanno liberamente bevuto o perché sono state fatte ubriacare. In questa prospettiva, quella del consenso esplicito, non è dunque importante chi abbia causato lo stato di inferiorità, ma il fatto che al momento dell’abuso la donna fosse o non fosse in grado di esprimere il proprio consenso al rapporto.
Secondo chi critica questa sentenza e la legge, aver spostato l’attenzione su chi ha fatto bere chi, per stabilire l’aggravante, rende invece tutto più complicato: innanzitutto perché in qualche modo c’è il rischio di rendere responsabile la vittima della minor gravità di ciò che le è accaduto, e poi perché diventa difficile stabilire il confine delle cose.