I visti cancellati dall’Australia
Soprattutto ai neozelandesi che hanno commesso un qualsiasi reato, creando grossi problemi anche alle loro famiglie
Dal dicembre del 2014 l’Australia ha reso ancora più dure le già stringenti norme che regolano l’ingresso nel paese, cancellando una serie di visti perché le persone che li avevano ottenuti non soddisfacevano il cosiddetto “requisito di carattere” o “Fact Sheet”. Chi vuole entrare o rimanere in Australia deve infatti non solo essere titolare di un visto, ma anche non rientrare in certe categorie: non deve essere un criminale di guerra, per esempio, non può avere una fedina penale corposa e non deve essere in generale qualcuno che possa in qualche modo rappresentare una minaccia per la società. L’anno scorso più della metà di questi visti cancellati per requisiti di carattere apparteneva a cittadini neozelandesi: quasi 1.300 neozelandesi sono stati espulsi dal gennaio 2015 e attualmente sono il gruppo più numeroso nei centri di detenzione migranti dell’Australia. A essere colpite sono poi soprattutto persone di origini maori e native del Pacifico.
L’inasprimento delle politiche migratorie dell’Australia, ha scritto il New York Times in un’inchiesta dedicata alla questione, sta mettendo a rischio le relazioni con uno dei (pochi) paesi a cui l’Australia è più vicina, cioè la Nuova Zelanda. I funzionari australiani difendono il loro nuovo approccio. In una dichiarazione inviata al New York Times, un portavoce del governo ha dichiarato che le misure di espulsione sono state introdotte per «proteggere l’Australia e i suoi cittadini». Ma i funzionari della Nuova Zelanda sostengono che l’Australia stia mettendo a rischio i legami storici tra i due paesi e che le nuove misure siano eccessive: consentono l’espulsione di persone che hanno scontato una condanna decenni fa o che hanno scontato più condanne brevi per reati minori e che messe insieme raggiungono i 12 mesi (che è il limite fissato dai requisiti di carattere). Molti neozelandesi pensano poi che l’Australia stia in qualche modo perseguendo un progetto più ampio: nel 2001 per esempio ha approvato misure che rendono più difficile per i neozelandesi diventare cittadini australiani (servono più tempo e più soldi, in pratica).
Gli australiani che vivono in Nuova Zelanda sono 22.470, secondo i dati del censimento del 2013, e la loro situazione è invece più semplice. Al loro arrivo ottengono un permesso di residenza permanente e possono richiedere la cittadinanza dopo cinque anni. Possono anche diventare idonei per richiedere un sussidio di disoccupazione o dei prestiti, se sono studenti. In Australia, molti neozelandesi non hanno invece quelle possibilità e una serie di cambiamenti nelle politiche sulle migrazioni ha di fatto limitato il loro accesso a prestazioni come il sostegno alla disoccupazione e alla disabilità; è molto difficile che possano ricevere prestiti come studenti e non hanno un percorso lineare per ottenere la cittadinanza. Molti neozelandesi rimangono quindi in una specie di limbo; vivono costretti a chiedere continui rinnovi di visti temporanei che permettono loro di lavorare, ma che offrono poca protezione o sicurezza se perdono il lavoro.
La prima ministra neozelandese Jacinda Ardern ha riconosciuto che l’Australia ha il «diritto sovrano di stabilire le proprie politiche sull’immigrazione», ma anche che i legami che le persone hanno in Australia dovrebbero avere maggior peso nelle sue decisioni. La domanda che si pone il New York Times è dunque: alla fine, chi è responsabile per i residenti di lunga data di un paese che però non ne diventano cittadini?
Nel 2016, solo l’8,4 per cento dei 146 mila migranti neozelandesi arrivati in Australia dal 2002 al 2011 aveva ottenuto la cittadinanza. Il tasso per i neozelandesi di origine Maori è ancora più basso: poco meno del 3 per cento. Nello stesso periodo di tempo, sono aumentati i tassi di incarcerazione dei cittadini neozelandesi: dal 2009 al 2016 c’è stata una crescita del 42 per cento di persone detenute in Australia e nate in Nuova Zelanda.
Tui Ah Loo, amministratrice di PARS, un’organizzazione che sostiene gli espulsi neozelandesi, ha detto che da luglio 2017 fino a maggio 2018 ha assistito 221 persone, rispetto alle 144 dell’anno precedente. Molti di quelli che tornano in Nuova Zelanda non hanno una famiglia e hanno bisogno di aiuto anche per le cose più semplici, come aprire un conto in banca o ottenere la patente. Ah Loo ha detto che queste persone «pensano australiano e agiscono da australiani».
Nel suo articolo, il New York Times ha raccolto diverse storie: Jason Wereta, che ha 46 anni, ha detto che tornare in Nuova Zelanda dopo 25 anni vissuti in Australia è stato molto difficile. Wereta ha quattro figli, ed è stato espulso l’anno scorso dopo aver scontato una serie di condanne per guida senza patente, stalking e intimidazione. Recentemente si è trasferito in un’isola nel sud della Nuova Zelanda, ma i suoi figli sono ancora in Australia, dove spera di tornare.
Lafaele Stowers, una cittadina di origini neozelandesi, ha vissuto in Australia per 12 anni. Ha due bambini piccoli avuti con il suo attuale compagno, Renay, e un figlio di 9 anni nato da una precedente relazione. Lei e tutti e tre i suoi bambini sono cittadini australiani. Nel dicembre 2016, Renay Stowers, che ha 32 anni, stava per uscire di prigione dopo aver scontato sei mesi per aggressione, ma gli è stato riferito che il suo visto australiano era stato cancellato. Quando i visti vengono annullati, ci sono due possibilità: o si lascia il paese volontariamente o si presenta un ricorso entro 28 giorni, come ha fatto Renay Stowers, che deve però attendere una risposta in uno dei centri di detenzione del paese. L’attesa può durare anche mesi.
Di recente i giornali si sono occupati di un caso in particolare: quello di Junior Togatuki, un ragazzo di 23 anni che si è suicidato in un carcere di massima sicurezza vicino a Sydney la notte dell’11 settembre 2015. Era un cittadino neozelandese di origine samoana che si era trasferito in Australia quando aveva 4 anni e che aveva diversi problemi di salute mentale. Junior Togatuki è morto mentre aspettava di essere espulso e la sua condanna era scaduta da più di un mese. Aveva anche scritto una lettera al ministro dell’Immigrazione australiano dicendo che se fosse stato deportato in Nuova Zelanda per lui sarebbe stato un dramma: «Non ho nessuno lì, nessun lavoro, nessuna casa o tetto sopra la mia testa». Ora è sepolto a Sydney.