Il doppio lavoro dei parlamentari europei
Quasi un terzo degli eletti ha un altro lavoro, in molti casi molto ben retribuito, ma molto poco supervisionato dalle istituzioni della UE
Quasi un terzo dei deputati del Parlamento europeo ha un altro lavoro, in molti casi molto ben retribuito. In cima alla lista dei 232 europarlamentari che hanno anche un altro lavoro c’è un italiano: Renato Soru, fondatore di Tiscali, eletto al Parlamento europeo nel 2014 con il Partito Democratico. Ma ci sono anche l’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, presidente del gruppo Alleanza dei democratici e dei Liberali per l’Europa, e il politico britannico di estrema destra Nigel Farage, leader per dieci anni dello UKIP. Lo ha spiegato uno studio di Transparency International, un’organizzazione non governativa con sede a Berlino che ha messo in fila una serie di domande sul conflitto di interessi che potrebbero avere alcuni eurodeputati, con il loro effettivo impegno politico e con la poca trasparenza con cui devono rendicontare le alte indennità che ricevono.
Le dichiarazioni sulle entrate esterne dei parlamentari europei sono pubbliche, ma i dati si basano su un’autocertificazione e spesso non sono forniti in modo preciso: è su queste dichiarazioni che si basa la relazione Transparency International, che è però riuscita a fornire solo una stima dei guadagni esterni. Quattro di loro sembrano aver guadagnato oltre un milione di euro dalle seconde occupazioni, dal 2014: al primo posto c’è Renato Soru, al secondo Antanas Guoga, un uomo d’affari lituano che ha chiarito di essere «ricco, già da prima di entrare in politica» e che ha affermato che il rapporto Transparency International include «informazioni errate» (nella sua dichiarazione ci sarebbero attività che non svolge più). Il terzo della lista è l’ex primo ministro belga Verhofstadt, con un reddito dichiarato compreso tra i 920.614 e circa un milione e mezzo di euro, percepito come direttore della società di investimenti Sofina.
Al quarto posto c’è Renaud Muselier, ex ministro francese durante le presidenze di Jacques Chirac, attuale presidente della regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra, che ha dichiarato 15 attività esterne che hanno a che fare con le cliniche mediche. Segue un’altra politica francese, Rachida Dagti, avvocata, e Nigel Farage, che ha dichiarato guadagni esterni che derivano dai suoi affari nel mondo dell’informazione. Al decimo posto c’è un altro italiano, Remo Sernagiotto, ex assessore regionale nominato in Veneto dal presidente Luca Zaia e che al Parlamento europeo fa parte del Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei.
Tra i primi parlamentari europei che hanno un secondo lavoro ci sono i belgi, seguiti dagli austriaci e dai danesi. L’Europa delle nazioni della libertà, cioè il gruppo politico di estrema destra che comprende il Fronte nazionale francese, il Partito della libertà austriaco e la Lega Nord, ha la più alta percentuale di deputati europei con un impiego esterno.
Uno degli autori della relazione ha detto che dal 2014 c’è stato un aumento del 13 per cento delle attività esterne dei parlamentari europei e ha spiegato che spesso è impossibile «sapere cosa fanno e chi li sta pagando». Nello studio si cita l’esempio del francese Jean-Luc Schaffhauser membro dell’ENF che nel suo rendiconto finanziario ha scritto di essere consulente per MWD Dubai, «di cui non sono disponibili online informazioni su clienti o ambiti di attività».
Avere un altro posto di lavoro rientra nelle regole del Parlamento europeo, se il tutto viene adeguatamente dichiarato. Ma il rapporto di Transparency International sostiene che questa situazione può rappresentare un “serio rischio” in materia di conflitto di interessi. «Quali interessi questi deputati rappresentano realmente? Quelli dei cittadini o quelli di coloro che pagano il loro posto di lavoro?», si è chiesto Daniel Freund, uno degli autori dello studio. Gli alti redditi sono particolarmente preoccupanti e a volte anche poco trasparenti, quando le descrizioni delle attività nelle dichiarazioni si limitano a “consulente”, “avvocato” o “libero professionista”. «I redditi esterni», ha scritto Transparency International nel suo rapporto, «possono anche essere utilizzati per campagne illecite o per il finanziamento dei partiti». E poi ci sono dei dubbi sul fatto che i parlamentari in questione riescano a dedicare il tempo e l’energia necessarie alle esigenze dei loro elettori e al lavoro legislativo, visto l’impegno consistente in altre attività.
Lo studio rileva inoltre una supervisione inadeguata sui lavori esterni dei membri del Parlamento europeo. A seguito di una serie di abusi, il Parlamento ha effettivamente introdotto un codice di condotta per controllare meglio la pratica delle altre attività e ha creato l’obbligo di rivelare qualsiasi potenziale conflitto di interessi. Ma «la supervisione etica rimane debole», dice lo studio e cita una serie di deputati che hanno effettivamente violato il codice partecipando a eventi o viaggi organizzati da terzi che li hanno anche spesati, ma che non sono stati sanzionati.
Le preoccupazioni contenute nel rapporto hanno a che fare anche con la pratica di versare agli eurodeputati un importo forfettario per le spese generali (la General Expenditure Allowance, GEA) senza che però debba essere presentato un rendiconto di come sono stati spesi quei soldi. I deputati al Parlamento europeo percepiscono una retribuzione annua lorda pari a circa 100 mila euro (8.611 euro al mese) a cui si aggiunge l’indennità forfettaria di circa 53 mila euro (4.416 euro al mese) e una serie di altri benefit. All’inizio di luglio l’ufficio di presidenza del Parlamento europeo ha votato contro la rendicontazione obbligatoria dell’indennità e a favore, invece, di una rendicontazione facoltativa. La General Expenditure Allowance ammonta in totale a 40 milioni di euro all’anno.
Attualmente i deputati del Parlamento europeo non sono tenuti a conservare alcuna documentazione sulla spesa di questa indennità e non sono tenuti a comunicare ai propri elettori quali fondi sono stati spesi e come. Le proposte bocciate dall’ufficio di presidenza chiedevano ai deputati di tenere le ricevute delle spese, di farle controllare da un revisore esterno e di pubblicare tali informazioni. L’ufficio di presidenza ha respinto anche la proposta di far rimborsare ai deputati i fondi non utilizzati alla fine del loro mandato.