• Mondo
  • Martedì 10 luglio 2018

Quattro storie di calcio e politica

Cose interessanti da sapere sulle quattro nazioni rimaste in corsa per la Coppa del Mondo (più una, sul paese che le ospita)

(Imaginechina via AP Images)
(Imaginechina via AP Images)

Esattamente vent’anni fa, al Mondiale di calcio disputato in Francia nel 1998, 40 mila persone attendevano sugli spalti dello stadio Gerland di Lione quella che era già stata definita la partita di calcio più politica della storia: l’incontro tra Stati Uniti e Iran. I due paesi non avevano relazioni diplomatiche dall’assalto all’ambasciata statunitense di Tehran del 1979. Da allora si trovavano in uno stato di “guerra fredda” che in più di un’occasione era diventato un conflitto aperto. Per rimarcare la distanza con gli statunitensi, la guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, aveva dato personalmente istruzioni ai suoi giocatori di non dare la mano agli avversari. Tutti temevano che la partita potesse portare a nuovi incidenti, ma alla fine tutto si svolse regolarmente e i due capitani si avvicinarono per una foto ricordo. L’Iran vinse per 2 a 1 eliminando gli Stati Uniti dal girone F, subito prima di essere eliminato a sua volta.

Come accadde in Francia nel 1998, la politica si intreccia da sempre con il calcio – due fenomeni popolari per eccellenza – e questo Mondiale non ha fatto eccezione. Dal successo del piccolo e diviso Belgio, una squadra dove si parlano non meno di cinque lingue differenti, al risultato della Croazia, che ha avuto una nazionale di calcio ancora prima di diventare uno Stato indipendente, abbiamo raccolto le storie politiche più importanti che riguardano le squadre che si affronteranno nelle semifinali (più una, bonus).

Belgio
Da anni giornalisti e leader politici descrivono il Belgio come uno “stato fallito“: e quando lo fanno, di solito, scherzano solo a metà. Il Belgio è diventato famoso per l’inefficienza della sua amministrazione – vi ricorderete che di recente restò senza governo per un anno e mezzo – e in particolare per quella delle sue forze di polizia, emersa negli ultimi anni a causa dei molti attentati terroristici organizzati o ispirati proprio in Belgio. È diviso tra una parte che parla francese e una che parla fiammingo, un dialetto dell’olandese (e c’è anche una comunità che parla tedesco). Per contenere le spinte secessioniste, i governi del Belgio nel tempo hanno concesso una caotica autonomia alle comunità locali, con risultati a volte paradossali. Nella sola regione della capitale Bruxelles, per esempio, ci sono una mezza dozzina di polizie locali dipendenti da altrettanti organi amministrativi diversi.

Ma il Belgio è anche la sede delle principali istituzioni europee e di importanti istituzioni internazionali, come la NATO. Bruxelles è la più cosmopolita delle città continentali e non solo per via dei moltissimi europei che la abitano, ma anche grazie alle sue grandi comunità di stranieri provenienti da Africa, Asia e Sudamerica. La nazionale di calcio del Belgio, che staserà giocherà contro la Francia, è un microcosmo di queste caratteristiche. Il suo allenatore, Roberto Martinez, è catalano; il suo vice, Thierry Henry, è uno dei più grandi calciatori francesi; i calciatori, in parte madrelingua francesi e in parte fiamminghi (i primi raramente parlano la lingua dei secondi), non possono fare altro che parlare tra loro in inglese, l’unica lingua conosciuta da tutti.

Questa nazionale multilingue, multinazionale e multietnica sembra la perfetta incarnazione calcistica del Belgio come nazione, e lo è anche per un altro motivo, oltre a quello linguistico: fino a oggi non aveva ottenuto particolari successi. Come ha raccontato sul New York Times il giornalista David Winner, che ha vissuto a lungo a Bruxelles, i belgi hanno una particolare forma di patriottismo: sono modesti, autoironici e raramente vengono anche solo sfiorati dall’idea che il loro paese sia in qualche maniera speciale, o addirittura “migliore” delle altre nazioni. Ma, si domanda Winner, cosa accadrebbe se per caso la sua nazionale dovesse vincere i Mondiali, cosa a questo punto ampiamente possibile? I modesti patrioti belgi e gli autonomisti che nel Belgio non credono affatto dovrebbero prendere atto che la loro squadra cosmopolita, espressione di un piccolo e trascurabile paese europeo, è oggi la migliore del mondo. Per il Belgio sarebbe “una crisi esistenziale”, ha scritto Winner: scherzando solo a metà, come sembra che nessuno che scrive di Belgio riesca a fare a meno.

Croazia
Nella ex Jugoslavia etnia e nazionalità sono state spesso questioni di vita o di morte, e lo sport è rimasto lontano da queste controversie. La Croazia è senza dubbio il paese della regione dove calcio e politica si intrecciano di più. Dario Brentin, ricercatore all’Università di Graz, ha ricordato su Twitter che il primo presidente della Croazia indipendente, Franjo Tuđman, era solito dire: «Dopo la guerra, il calcio è la prima cosa con cui le nazioni si distinguono le une dalle altre». Nella mitologia nazionale croata è ancora vivo il mito della partita del 1990 tra la Dinamo Zagabria e Stella Rossa di Belgrado che avrebbe dato il via alla guerra civile in Jugoslavia.

La moderna nazionale della Croazia nacque proprio negli anni dell’indipendenza dalla ex Jugoslavia. Anzi, si può dire perfino che la nazionale di calcio nacque prima della Croazia stessa: nell’ottobre del 1990, mentre la Croazia era ancora formalmente una repubblica parte della federazione jugoslava, venne messa in piedi in tutta fretta una squadra nazionale e un imprenditore locale finanziò una trasferta della nazionale degli Stati Uniti a Zagabria per una partita amichevole che ebbe grande successo. La nazionale della Croazia disputò così la sua prima partita quasi un anno prima che il paese dichiarasse la sua indipendenza nell’ottobre del 1991.

Oggi la Croazia è arrivata alle semifinali della Coppa del mondo, come era accaduto soltanto 20 anni fa, ai Mondiali di Francia del 1998. Come allora, le piazze del paese sono piene di tifosi che inneggiano alla squadra di calcio ed è spesso impossibile distinguere la linea che separa la nazionale dalla nazione vera e propria. In particolare nei Balcani, la situazione rischia di avere anche conseguenze negative. Le origini etniche dei giocatori vengono spesso discusse e dibattute, riportando alla mente gli anni in cui furono i croati a compiere pulizie etniche nella regione. Il clima di entusiasmo mette a tacere ogni critica non solo alla nazionale ma alla nazione stessa e al suo governo, considerato uno dei più corrotti d’Europa. La Croazia quindi è un esempio straordinario di come il calcio possa unire una nazione, a volte anche un po’ troppo.

Francia
Al primo turno delle elezioni presidenziali francesi del 2017, la candidata della destra radicale Marine Le Pen raccolse quasi il 20 per cento dei voti, il risultato migliore mai ottenuto dal suo partito, che vorrebbe fare della Francia un paese linguisticamente, culturalmente ed etnicamente omogeneo, dove non arrivano migranti e stranieri, e che preserva le sue radici religiose e culturali. La nazionale francese da decenni però è l’opposto di questa idea: la gran parte dei suoi giocatori sono figli o nipoti di immigrati, soprattutto nordafricani, arrivati in Francia negli ultimi 40 anni. Quasi tutti provengono da famiglie che vivevano nelle banlieue, i grandi quartieri spesso degradati che si trovano alla periferia di Parigi, dove secondo Le Pen e i suoi seguaci si coltivano criminalità ed estremismo religioso, ma che secondo i talent scout delle squadre di calcio sono anche il più ricco vivaio calcistico al mondo dopo le favelas brasiliane, per la grande presenza di campetti in cemento.

Non è la prima volta che un momento di grande fortuna della nazionale francese coincide con le fortune della destra radicale francese. Nel 1998 era il padre di Marine Le Pene, Jean-Marie, che si preparava a competere alle elezioni presidenziali: avrebbe raggiunto il ballottaggio per la prima volta nella storia del suo partito. All’inizio dei  Mondiali, Le Pen disse che non avrebbe tifato per la Francia, che secondo lui era “un arcobaleno”. Quello stesso anno, la Francia vinse il Mondiale: fu considerato il simbolo dell’esperimento multiculturale francese e di quanto fosse riuscito. Negli anni seguenti, però, quando la nazionale francese attraversò un periodo di crisi di risultati e grandi tensioni tra i calciatori, spesso l’opinione pubblica spiegò i problemi della squadra con le caratteristiche etniche dei giocatori.

Regno Unito
Per gli inglesi il mondiale ha un significato particolare. L’Inghilterra è il paese che ha inventato il calcio, ma la nazionale inglese non vince un Mondiale né ottiene risultati significativi ormai da decenni. Significa che ci sono almeno due generazioni di inglesi che in questi giorni stanno assistendo per la prima volta a una serie così lunga di vittorie da parte della loro nazionale, e alla possibilità concreta di vincere la Coppa del Mondo. Ma se oggi in Inghilterra c’è da festeggiare ed essere ottimisti, il resto degli abitanti del Regno Unito ha più di una ragione per essere combattuto. L’Inghilterra infatti è solo una parte del Regno Unito, che è composto anche da altre tre parti, ognuna con la sua nazionale di calcio: Scozia, Irlanda del Nord e Galles.

Se negli anni Sessanta questa divisione era poco sentita, e il giorno delle partite gli stadi si riempivano di Union Jack, la bandiera bianca, blu e rossa del Regno Unito, oggi la nazionale inglese è celebrata soprattutto in Inghilterra e gli stadi sono tappezzati di croci rosse su campo bianco, la croce di San Giorgio simbolo della sola Inghilterra. È un sentimento che esce dagli stadi e dal tifo. La Scozia ha celebrato un referendum sull’indipendenza quattro anni fa e i suoi leader minacciano ancora oggi di organizzarne uno nuovo; Galles e Irlanda del Nord tentano da tempo di ottenere nuove libertà e autonomie. Non c’è da sorprendersi quindi se sui social network una rumorosa minoranza di scozzesi ha fatto sapere di aver tifato una dopo l’altra tutte le avversarie dell’Inghilterra.

La lealtà verso la squadra nazionale inglese è ulteriormente complicata dall’altra grande questione politica che aleggia sul Regno Unito: la Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, votata a maggioranza dagli inglesi ma rigettata da una maggioranza di tutti gli altri abitanti del Regno Unito.

Russia
La storia politica più importante di questo Mondiale però è senz’altro quella della nazione ospitante, la Russia. Si capisce facilmente guardando le squadre arrivate in semifinale: appartengono tutte a paesi che oggi hanno in vigore pesanti sanzioni economiche contro il paese che le ospita. Erano decenni, infatti, che le relazioni della Russia con il resto della comunità internazionale non scendevano a un punto così basso, e secondo molti la Coppa del Mondo è stata per la Russia un’ottima occasione per tentare un’operazione internazionale di pubbliche relazioni.

Alcuni temevano questo scenario. L’ex ministro degli Esteri britannico Boris Johnson, che si è dimesso lunedì, aveva detto che questa Coppa del Mondo sarebbe stata una nuova edizione delle «Olimpiadi del 1936», quelle organizzate da Adolf Hitler e che furono trasformate in uno spettacolo di propaganda per la Germania nazista. Al di là dei paragoni, la sua previsione si è rivelata almeno in parte corretta. La Coppa del Mondo è stata fin qui un grande successo per Putin e per la Russia, ma in modo completamente diverso da quello che immaginava Johnson.

Le Olimpiadi del 1936 furono una celebrazione della macchina organizzativa nazista e della superiorità etnica dei tedeschi. Durante questa Coppa del Mondo non c’è stato nulla del genere. Non si sono viste state parate o manifestazioni e non ci sono stati spettacoli di propaganda, mentre il presidente Putin è rimasto per la maggior parte del tempo discretamente nell’ombra. Il successo di propaganda deriva invece dal fatto che fino a oggi la stragrande maggioranza dei tifosi arrivati per assistere al torneo ha espresso soddisfazione per l’accoglienza ricevuta e per l’organizzazione dell’evento. La violenza nazionalista dei tifosi russi e i soprusi della polizia locale non si sono materializzati in quantità tali da danneggiare l’immagine di una Coppa del Mondo che, secondo la gran parte delle opinioni, ha funzionato a dovere. Questo è probabilmente il principale successo di Putin: per più di un mese la Russia è stato un paese normale, al centro di una storia positiva, dando un’immagine diversa dal paese aggressivo, violento e repressivo che solitamente viene raccontato dai media occidentali.