I Golden State Warriors hanno rotto la NBA?
Se lo è chiesto qualcuno dopo l'arrivo del fortissimo centro DeMarcus Cousins, che si aggiunge alla squadra già nettamente più forte: c'è qualche soluzione?
Martedì la squadra NBA dei Golden State Warriors, vincitrice degli ultimi due titoli e considerata da molti la più forte nella storia del basket, ha annunciato l’ingaggio di DeMarcus Cousins, centro tra i più forti di tutta la lega, che ha giocato l’ultima stagione ai New Orleans Pelicans. È stato un trasferimento in parte oscurato da quello di LeBron James ai Los Angeles Lakers, ma che ha fatto comunque parlare moltissimo e che è altrettanto rilevante per gli equilibri della NBA, e soprattutto per quello che racconta di cosa è diventata la lega negli ultimi anni. Negli ultimi giorni, molti esperti e giornalisti hanno commentato con toni simili l’operazione, ponendosi una serie di domande riassunte dal Wall Street Journal in: i Golden State Warriors hanno rotto la NBA? In altre parole: sono davvero diventati così forti e superiori a tutti gli altri da rendere la prossima stagione noiosa e con un finale ultra-scontato?
I cinque “all star” dei Warriors nella prossima stagione.
Cosa significa Cousins ai Warriors
Con l’aggiunta di Cousins, i Golden State Warriors sono diventati la prima squadra a schierare in quintetto cinque “all star” dai tempi Boston Celtics della stagione 1975-1976. Gli “all star” sono i giocatori che giocano stabilmente all’All Star Game, la partita-esibizione a cui partecipano i più forti giocatori della NBA: nei Warriors, gli altri sono Steph Curry, Kevin Durant, Klay Thompson e Draymond Green. I Warriors di fatto dominano la NBA dal 2015, quando vinsero il loro primo titolo di questo ciclo. Nel 2016, dopo la finale persa contro i Cleveland Cavaliers, ingaggiarono Kevin Durant, aggiungendo uno dei quattro-cinque giocatori migliori della lega alla squadra più forte: diventarono così una “super squadra” capace di vincere due titoli consecutivi: nettamente più forte di tutte le altre, insomma.
Cousins è reduce da un grave infortunio al tendine d’Achille e il suo rendimento nella prossima stagione non è garantito, oltre al fatto che ha anche la fama di giocatore rissoso e difficile da gestire. Ma è comunque uno dei più forti centri al mondo, e i commentatori sono concordi nel dire che il prossimo anno la NBA sarà ancora meno combattuta dell’ultima stagione: i Warriors partono con un vantaggio tale che per qualcuno si potrebbe anche non iniziare nemmeno a giocare.
Alex Kennedy, giornalista di HoopsHype: «Stavo parlando con un lungo che attualmente è un free agent quando è uscita la news che Demarcus Cousins si era unito ai Warriors. Il giocatore con cui stavo parlando non mi ha creduto, si è messo a ridere, lo ha detto ai suoi amici e poi ha detto: «Potrebbero anche cancellare la stagione NBA. Possiamo avere ora i nostri stipendi annuali, ora?»
Cosa lo ha reso possibile
L’ingaggio di Cousins è stato legale, e portato a termine senza particolari magheggi: al di là dell’aspetto sportivo, infatti, l’operazione è interessante perché è stata resa possibile da alcune condizioni particolari che si sono create in NBA a partire dall’estate del 2016. Due anni prima, la NBA aveva firmato un enorme accordo con ESPN e Turner Sports per i diritti televisivi per i successivi nove anni, per un valore di 24 miliardi di dollari. Per via delle contrattazioni sindacali interne alla NBA, il 51 per cento degli introiti della lega va agli stipendi dei giocatori: e da questi introiti che dipende il cosiddetto “salary cap”, cioè il tetto agli stipendi imposto alle singole squadre. Viene definito un “tetto morbido”, perché le squadre possono superarlo (e la maggior parte lo fanno): quelle che vanno oltre una certa soglia vanno incontro alla “luxury tax”, una tassa aggiuntiva.
Quando si dovette decidere come gestire tutti quei soldi in più, derivanti dagli accordi televisivi, la NBA propose all’associazione che rappresenta i giocatori di aumentare gradualmente il tetto agli stipendi, invece che tutto in una volta sola. Questo avrebbe permesso di spalmare le nuove possibilità economiche su più finestre di free agency, cioè quelle in cui le squadre ingaggiano i giocatori svincolati. La proposta fu però rifiutata dal sindacato dei giocatori e dai rappresentanti delle squadre, che scelsero l’opzione “tutto e subito”. Nell’estate 2016, perciò, le squadre si ritrovarono con molti soldi in più da spendere – si passò da 70 milioni di dollari di tetto complessivo agli stipendi a 94 milioni, con la soglia per la luxury tax a 113 milioni – anche se in pochi avevano le idee chiare su come farlo.
Golden State poté ingaggiare Durant grazie allo spazio salariale liberato dall’innalzamento del salary cap, cedendo soltanto giocatori secondari. Altre squadre, come i Los Angeles Lakers, i New York Knicks o gli Orlando Magic, fecero scelte più avventate, e sperperarono i propri soldi in giocatori che non valevano contratti così alti. Una delle conseguenze tangibili ancora oggi è che giocatori di alto livello che sono diventati svincolati nell’estate del 2017 o del 2018 si sono dovuti accontentare di contratti più modesti, come ha spiegato The Ringer.
L’operazione Cousins, però, è stata possibile soltanto perché il giocatore si è accontentato di un contratto molto inferiore alle sue possibilità: durerà un solo anno, per un totale di 5,3 milioni di dollari. È poco, se paragonato a quelli di altri giocatori forti come Cousins (che l’anno scorso ha guadagnato 18 milioni), ma era il massimo che i Warriors potessero concedere, sfruttando un’esenzione particolare chiamata “midlevel exception”, una sorta di bonus per un contratto di un valore definito.
Ma la scelta è stata di Cousins, visto che la free agency ha proprio lo scopo di permettere ai giocatori di andare a giocare nella squadra che vogliono, tra quelle disposte a ingaggiarlo: e Cousins, ha detto lui stesso, non aveva ricevuto offerte superiori da altre squadre, preoccupate per la gravità del suo infortunio e per il suo carattere difficile da gestire. Aveva però ricevuto una proposta di rinnovo dai Pelicans, per uno stipendio di molto superiore a quello che prenderà ai Warriors. Per Golden State non c’era niente da perdere: se Cousins si riprenderà dall’infortunio, avrà aggiunto un altro “all star” alla sua rosa, almeno fino alla fine dell’anno; se non si riprenderà, il costo dell’operazione verrà valutato comunque come molto contenuto e senza conseguenze importanti sul gioco della squadra.
La NBA dovrebbe cambiare qualcosa?
È quello che stanno sostenendo in molti, convinti che sia ormai diventato troppo facile il verificarsi di una concentrazione di talento come quella di Golden State, tale da rendere quasi scontato l’esito del campionato. Il problema è che non è chiaro che soluzioni ci siano, e secondo Michael McCan di SBNation è meglio che la NBA ne rimanga fuori, perché le regole prevedono che sia imparziale e non intervenga nel determinare in quale squadra giocano i giocatori, tanto meno quando non c’è niente di illegale.
Il giornalista Dan Wolken ha invece scritto su USA Today che non è vero che la NBA è ingiusta, e che il dominio dei Warriors non è poi una condizione così straordinaria nello sport mondiale. Wolken fa l’esempio del dualismo tra Real Madrid e Barcellona in Spagna, ma ancora più esemplare è quello della Juventus in Italia. E nel basket è ancora più normale che ci sia una squadra che domini nettamente sulle altre, spiega Wolken, visto che i singoli giocatori fortissimi, e ancora di più due o tre giocatori fortissimi insieme, sono molto più determinanti sul rendimento di una squadra rispetto alla maggior parte degli altri sport, per la natura stessa del gioco.
C’è un’altra cosa da considerare. I Warriors sono stati in grado di creare la squadra che hanno oggi grazie a un lavoro durato anni, solido e puntando sulle persone giuste.
Curry, Green e Thompson – i tre “all star” che hanno vinto il primo titolo per Golden State quando ancora non era arrivato Durant – sono stati scelti al “draft”, cioè all’evento annuale con cui le squadre NBA prendono nuovi giocatori arrivati dai college o dai campionati europei: non sono stati “comprati” e non erano nemmeno tra quelli allora più richiesti. L’allenatore di questo ciclo vincente, Steve Kerr, ha accettato l’incarico che gli era stato proposto dalla dirigenza dei Warriors senza avere alcuna esperienza alle spalle, per lo meno da allenatore. Molti giocatori passati dai Warriors negli anni scorsi hanno raccontato di un ambiente positivo, senza troppi egoismi personali, dove l’obiettivo di tutti è vincere: è anche per questo che i Warriors sono riusciti a convincere Durant a unirsi a loro, nonostante le molte offerte che aveva ricevuto. Chi difende oggi la NBA com’è – e crede che no, i Warriors non la stiano rovinando – sottolinea come le vittorie degli ultimi anni e l’arrivo di giocatori molto forti disposti a tagliarsi lo stipendio pur di giocare a Golden State siano il risultato di una cultura sportiva costruita con pazienza, che ora sta dando i suoi frutti. Sarebbe quindi giusto limitare la supremazia dei Warriors, a queste condizioni? Molti credono di no.
C’è in ogni caso chi crede che la NBA dovrebbe approvare un tetto agli stipendi “rigido”, che non preveda cioè la possibilità di sforare per le squadre: è un’idea suggerita dallo stesso Adam Silver, capo della NBA, secondo il quale sarebbe una soluzione per equilibrare il campionato sul lungo periodo, e che da anni la lega prova a mettere sul tavolo nelle trattative sindacali. Ma c’è chi ha dei dubbi: un “hard cap” non impedirebbe ai giocatori di accettare stipendi più bassi per giocare in alcune squadre, come è successo con Durant e ora con Cousins. La “luxury tax”, in realtà, è la misura già esistente che secondo qualcuno potrebbe porre fine al dominio dei Warriors: quando Thompson e Green dovranno rinnovare il contratto, nel 2019 e nel 2020, avranno diritto a un notevole aumento dello stipendio, secondo le complicate norme che regolano i contratti della NBA. Se lo pretenderanno, i Warriors potrebbero non poterseli più permettere.
Da anni, poi, c’è chi chiede che la NBA superi la divisione in Eastern e Western Conference, le due divisioni che determinano l’accesso ai playoff. Le squadre dell’Ovest sono infatti da tempo nettamente più forti rispetto a quelle dell’Est, e questo scarto si è allargato ulteriormente con l’arrivo di James a Los Angeles e di Cousins ai Warriors. I posti per i playoff sono gli stessi per l’Est e l’Ovest, e vanno alle prime 8 squadre di ciascuna divisione, che poi si incontrano in due parti separate del tabellone incontrandosi solo in finale, a cui accede sempre una squadra dell’Est e una dell’Ovest. Succede così che a Ovest non riescano a qualificarsi squadre con più vittorie di quelle che a Est arrivano, per esempio, quinte o seste. E la disparità nel livello delle due divisioni emerge chiaramente guardando le partite di playoff di una parte e dell’altra del tabellone. Questo renderebbe probabilmente più equo il campionato, ma farebbe poco per contrastare il dominio dei Warriors.
La domanda che si fanno in molti, in ogni caso, è se alla NBA convenga intervenire. Nonostante il campionato sia diventato indiscutibilmente più noioso e prevedibile, gli spettatori continuano ad aumentare, negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Questo perché la NBA è una delle industrie dell’intrattenimento più floride e potenti degli Stati Uniti: e i Warriors sono senz’altro una squadra che intrattiene, forti come sono.