Il centrodestra ha perso il centro
Non è solo la sinistra a essere in crisi, anche i tradizionali partiti conservatori sembrano sempre più in difficoltà: cosa significa e come potrebbe andare a finire
di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca
Se la sinistra europea è morta o moribonda, come si sente dire da parecchio tempo, il centrodestra non se la passa molto meglio. Dalla Scandinavia alla Spagna, passando per l’Italia, nell’ultimo anno i tradizionali partiti conservatori hanno subìto una sconfitta dietro l’altra e i loro consensi sono a un minimo storico. «Dopo l’implosione della sinistra moderata», scriveva una settimana fa il giornalista Paul Taylor su Politico.eu, «sembra arrivato il turno del collasso dei conservatori».
A portare il tema sulle prime pagine dei quotidiani in queste ultime settimane è stato lo scontro che ha diviso i due principali partiti conservatori tedeschi, la CDU, il partito della cancelliera Angela Merkel, e la bavarese CSU. Le difficoltà per la coalizione erano cominciate alle ultime elezioni politiche, nel settembre 2017, quando CDU e CSU avevano ottenuto il risultato peggiore della loro storia recente, soffrendo in particolare la concorrenza della destra radicale dell’AFD. Nel timore di perdere ancora terreno alle elezioni bavaresi del prossimo ottobre, il leader della CSU e ministro dell’Interno Horst Seehofer ha chiesto al governo misure più dure contro l’immigrazione, minacciando una rottura della coalizione se non fosse stato accontentato. Per risolvere la crisi la cancelliera Merkel ha dovuto accettare politiche più restrittive nei confronti dei migranti che ora rischiano di produrre una reazione a catena nei paesi vicini, come Austria e Italia.
Secondo Taylor, è uno schema che si sta osservando in tutto il continente: sui temi che riguardano i valori della tradizione e dell’identità, messi in discussione soprattutto dall’immigrazione, i moderati si stanno spostando sempre più a destra nel tentativo di arginare l’emorragia di voti verso la destra radicale. Non sempre questo spostamento ha coinciso con un recupero di consensi. Il risultato è che molti partiti moderati sembrano inseguire la destra radicale, legittimando così le sue posizioni più estreme, ma senza spesso ottenerne alcun vantaggio.
È un fenomeno evidente in particolar modo in Italia, dove alle ultime elezioni Forza Italia è stata superata dalla Lega. Da allora il partito di Silvio Berlusconi, che ha dominato la politica italiana per due decenni, non è riuscito a formulare una proposta politica alternativa e oggi è dato dai sondaggi intorno all’8 per cento, lo stesso risultato di Rifondazione Comunista l’ultima volta che entrò in Parlamento. Ma se ne vedono tracce anche in Francia, dove il presidente del partito conservatore Les Repubblicains, Laurent Wauquiez, ha espulso la sua vice, che aveva protestato contro un volantino che sembrava voler inseguire la destra radicale del Front National (che da poco è stato ribattezzato “Rassemblement National”) sui temi dell’euroscetticismo e dell’immigrazione. In Spagna, Ciudadanos, nato come partito liberale e pro-business, sta assumendo posizioni sempre più nazionaliste, soprattutto in relazione alla questione catalana; e il Partido Popular è caduto in disgrazia e ha perso il governo. In Austria e in molti altri paesi dell’Europa centrale e orientale i partiti conservatori si sono alleati con l’estrema destra per arrivare al governo e ora, in molti casi, ne sembrano diventati indistinguibili.
È proprio da questa regione che proviene quello che secondo i media è il simbolo del nuovo centrodestra-senza-centro: Vitkor Orbán, il primo ministro dell’Ungheria. Il suo partito, Fidesz, aderisce al Partito Popolare Europeo (PPE) e quindi fa parte, almeno in teoria, della famiglia dei moderati europei. Negli anni, però, Orbán ha assunto una serie di posizioni che oggi lo fanno spesso paragonare al presidente statunitense Donald Trump, se non a leader ancora più radicali.
Oltre ad aver chiuso quasi completamente le sue frontiere all’immigrazione e a opporsi a ogni ulteriore integrazione europea, Orbán ha attaccato l’indipendenza dei media ungheresi e diviso l’opinione pubblica del paese sostenendo apertamente teorie del complotto (la più nota delle quali è quella sul piano segreto per sostituire la popolazione europea con i migranti). Ma è anche il suo disegno politico a essere, secondo molti, incompatibile con i valori del conservatorismo europeo. Orbán ha spiegato che il suo obiettivo è creare uno “stato illiberale” – lo ha chiamato così lui stesso – dove i diritti politici fondamentali sono garantiti ma le altre libertà possono essere represse in nome della tutela dell’identità e della tradizione. Anche se in molti vorrebbero liberarsene, Orbán è intoccabile nel Partito Popolare Europeo: controlla un gruppo di circa 20 europarlamentari – del suo partito o suoi alleati – che, dopo le europee del 2019, sarà probabilmente fondamentale nel garantire ai Popolari la maggioranza sui Socialisti, i loro principali avversari all’interno del Parlamento europeo.
Di fronte a questa situazione, molti si domandano se i conservatori europei si siano ridotti alla scelta tra due alternative poco allettanti: scivolare nell’irrilevanza sperando che sia solo temporanea e che presto il ciclo politico torni a loro favorevole oppure seguire la strada della “democrazia illiberale” tracciata da Orbán. Non sono in pochi a sostenere però che esiste una terza alternativa: opporsi alla destra radicale alleandosi con la sinistra moderata. Il più celebre tra i sostenitori di questa strada è il presidente francese Emmanuel Macron, secondo cui la crisi del centrodestra, speculare a quella della sinistra, ha portato al superamento delle vecchie categorie politiche. Oggi lo scontro non sarebbe più tra destra e sinistra, ma tra le forze favorevoli all'”apertura” – al commercio internazionale, all’integrazione europea e, almeno in parte, all’immigrazione – e quelle che sostengono la “chiusura”. L’unica soluzione per i moderati di entrambi gli schieramenti, se vogliono sopravvivere, sarebbe unire le loro forze.
Nel resto d’Europa non tutti sono d’accordo. «È molto facile dimenticare che in realtà il centrodestra europeo sta cambiando da decenni», ha spiegato al Post Tim Bale, professore di politica alla Queen Mary University di Londra ed esperto nello studio comparato dei partiti conservatori europei. Bale ricorda che l’Europa ha già visto una svolta a destra nel suo recente passato. In Francia il Front National guidato dal padre di Marine Le Pen era arrivato al ballottaggio per le presidenziali francesi già nel 2002, mentre la destra radicale si era già trovata al governo in Austria a fine anni Novanta e in Danimarca nel 2001. «Voi italiani dovreste saperlo meglio di tutti», ha aggiunto riferendosi a Silvio Berlusconi, oggi considerato da molti studiosi il primo leader politico europeo ad aver sdoganato la destra radicale – portando al governo Alleanza Nazionale e la Lega Nord – e adottato il linguaggio e lo stile che ora viene spesso associato ai leader populisti emergenti. Bale ricorda anche che molti di quelli che oggi vengono indicati come icone del fronte “aperturista” fino a poco tempo fa avevano posizioni che non sfigurerebbero sulla bocca di Matteo Salvini. Nel 2010, per esempio, fu Angela Merkel a dichiarare la “morte” del multiculturalismo; mentre lo stesso Macron ha sull’immigrazione un atteggiamento perlomeno ambiguo.
È difficile quindi sostenere che siamo di fronte a un fenomeno completamente nuovo, magari importato dagli Stati Uniti di Donald Trump e propagato dal suo ex consigliere Steven Bannon, come ha suggerito un recente e molto criticato articolo di CNN. È invece un fenomeno che accompagna la storia europea, con alti e bassi, da oltre vent’anni. Secondo Bale, il recente spostamento a destra dei partiti conservatori e il successo dell’estrema destra negli ultimi anni (secondo un’analisi del voto in Europa commissionata dall’agenzia Bloomberg alla fine del 2017 l’estrema destra aveva raggiunto il 15 per cento dei voti in tutto il continente, il risultato migliore dal 1997) sono il frutto della “tempesta perfetta” che ha colpito l’Europa: la somma della crisi economica, che ha messo in dubbio la solidità delle proposte economiche più tradizionali, e la crisi migratoria.
Quest’ultima sembra essere la questione principale attorno alla quale ruota la crisi odierna. Nessun partito conservatore europeo è in difficoltà soltanto per un rigetto delle sue politiche economiche da parte degli elettori: i problemi – come quelli della coalizione tedesca – sembrano derivare tutti da questioni legate all’identità e alle tradizioni, messe in discussione soprattutto dall’immigrazione. Se la sinistra europea è stata spesso criticata per essersi spostata su posizioni di destra in politica economica, così il centrodestra moderato di oggi sembra essere in difficoltà per aver fatto compromessi “a sinistra” nella difesa dei valori dell’identità tradizionale.
L’idea che negli ultimi anni sia esistito una sorta di “consenso trasversale” favorevole ai valori dell’integrazione e dell’apertura viene spesso distorta dalla destra radicale, che accusa il cosiddetto “establishment” di aver limitato la libertà di espressione in nome del politicamente corretto. In maniera più equilibrata, però, ne discutono anche molti accademici, secondo i quali è assurdo parlare di censura, ma è vero che è esistito una sorta di consenso, spesso tacito, intorno a una serie di valori comuni condivisi. In Italia, argomenti simili sono sostenuti da Giovanni Orsina, storico contemporaneo, studioso del centrodestra e autore del libro La democrazia del narcisismo. Secondo Orsina, «negli ultimi 30 anni in Europa si è consolidato un discorso progressista che è diventato egemone nei circoli culturali, accademici e giornalistici». Per Orsina alcuni valori fondamentali nel passato, come tradizione e identità, sono stati soppiantati da un consenso trasversale che ruotava intorno alle idee di multiculturalismo e apertura. «Questi valori», ha detto Orsina al Post, «sono stati accettati anche dai partiti del centrodestra, compreso il PPE, simmetricamente a come la sinistra nello stesso momento ha accettato il mercato». Come la sinistra fatica a essere credibile quando torna a promettere protezione sociale, così i conservatori non sono più credibili quando promettono di proteggere i valori tradizionali. «Non ci riescono più perché hanno assorbito quel linguaggio e vedono il mondo attraverso quel tipo di linguaggio», continua Orsina. «La CDU non riesce a dire “quei valori restano i nostri valori, ma dobbiamo contemperarli con la realtà”».
I leader del centrodestra europeo hanno affrontato questa sfida nei modi più vari. Alcuni hanno deciso di non fare nulla e di attendere la fine di questo ciclo politico, nella speranza che la crisi del centrodestra si risolva da sola con il fallimento dei suoi avversari. È la strategia che sembra aver adottato Berlusconi (come in effetti ha sempre fatto, anche in occasione delle passate sconfitte elettorali). Altri hanno scelto la strada “centrismo radicale” di Macron: allearsi con tutti i moderati per difendere i valori dell’apertura e dell’integrazione economica e culturale (e, forse con meno convinzione, anche quelli dell’apertura all’immigrazione). Altri ancora, come il tedesco Seehofer, stanno cercando di riaffermare l’antica centralità dei valori della tradizione e dell’identità, ma così facendo devono anche affrontare il pericolo di scivolare nella “democrazia illiberale” di Orbán.
Ci vorranno mesi e forse anni per comprendere chi tra loro abbia fatto la scelta migliore per il futuro dei conservatori europei. Ma che ad averla vinta sia Macron oppure qualche nuovo leader conservatore proveniente dall’Europa centrale, sembra evidente che su temi come immigrazione e tradizione il centro dello spazio politico europeo – inteso come le posizioni più mainstream e largamente diffuse – si è oramai spostato a destra. Quale che sarà il futuro dei conservatori moderati europei, argomenti e toni che fino a pochi anni fa sembravano relegati a nicchie irrilevanti hanno fatto il loro ingresso all’interno del discorso pubblico e non sembra che ne usciranno in fretta.