Forse Brexit non sarà poi così favorevole ai pescatori britannici
Nonostante moltissimi pescatori votarono per uscire dall'Unione, convinti che gli avrebbe portato grossi vantaggi
Durante la campagna elettorale per Brexit, i sostenitori dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea parlavano spesso di come l’industria della pesca britannica fosse ingiustamente danneggiata dalle regole europee. L’ex leader dell’UKIP Nigel Farage, per esempio, si era lamentato del fatto che a causa del sistema di quote europeo, non molto diverso dalle famigerate “quote latte”, i pescherecci britannici potessero pescare solamente il 20 per cento dei pesci che vengono catturati ogni anno nelle acque britanniche. In realtà il dato è un po’ più alto – si parla del 30 per cento – ma il messaggio di Farage ha avuto lo stesso molta presa sui pescatori, che hanno votato in massa per uscire dall’Unione Europea. Ora però, man mano che proseguono i negoziati sui termini dell’uscita, alcuni di loro dubitano che le cose miglioreranno a breve.
I pescatori britannici sono stufi di ributtare in mare parte del pesce pescato per rispettare le quote europee, stabilite ogni anno per evitare che il mercato comunitario venga invaso dalla super-produzione di alcuni paesi (e per proteggere alcune specie di pesci considerate a rischio). Il problema principale, però, è che l’industria britannica della pesca non può fare a meno di dipendere dagli altri paesi: tre quarti del pesce pescato da navi britanniche viene venduto ai paesi dell’Unione, perché i pesci che si pescano più facilmente – come lo sgombro e l’aringa – non piacciono molto ai britannici, che invece preferiscono altri pesci che vengono comprati all’estero. Dal 1986 al 2016 le importazioni di pesce nel Regno Unito sono praticamente raddoppiate, passando da 411mila tonnellate a 730mila. Anche le esportazioni sono cresciute, ma a un ritmo meno sostenuto, passando da 339mila a 440mila.
Un paese che esporta buona parte del suo pescato non può permettersi grandi margini di manovra: se anche il Regno Unito ottenesse l’uso esclusivo delle proprie acque e l’abolizione del sistema delle quote – una delle varie promesse fatte dai sostenitori di Brexit – l’Unione potrebbe decidere di imporre dei dazi al pesce britannico, con gravissime conseguenze per l’intera industria. Per diventare autosufficiente, invece, l’industria britannica della pesca dovrebbe convincere i britannici a mangiare più sgombro e meno tonno.
Nella bozza di accordo su Brexit firmata dal governo britannico e Unione Europea, i pescatori non ne sono usciti bene. L’Unione ha respinto la richiesta del Regno Unito di rinegoziare le quote di pesce pescato fra 2019 e 2021, durante il cosiddetto periodo transitorio, e si è limitata a impegnarsi a “consultare” il Regno Unito per la definizione delle nuove quote. Il risultato del negoziato finale potrebbe essere un accordo simile a quello attuale: il Regno Unito garantirebbe alle navi europee l’accesso alle proprie acque – come avviene oggi senza bisogno di alcun trattato particolare – e in cambio otterrebbe condizioni favorevoli per vendere il suo pesce nell’Unione (oggi non hanno alcun dazio per effetto del Mercato europeo comune). Secondo il Wall Street Journal, «diversi pescatori sono preoccupati che il governo li stia usando per assicurarsi un buono accordo per settori più redditizi». L’industria della pesca, per quanto molto visibile, si è ridotta molto nel corso degli anni e oggi contribuisce solamente allo 0,05 per cento del PIL britannico.
«L’industria della pesca si aspetta un certo risultato», ha spiegato al Wall Street Journal Luis González García, un avvocato specializzato nel commercio internazionale: «se non lo otterranno, sarà complicato fargli ratificare l’accordo. Esiste un grande problema di gestione delle aspettative».