L’indagine sulle ong non ha trovato niente di niente
La richiesta di archiviazione presentata dalla procura di Palermo smentisce nettamente le accuse circolate in questi mesi, e anzi difende l'operato di chi soccorre i migranti
Dai documenti con cui la procura antimafia di Palermo – cioè chi indaga: l’accusa, tecnicamente – ha chiesto l’archiviazione di un’indagine che coinvolgeva diverse ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo, emerge che i magistrati non solo non hanno trovato nessuna prova a sostegno della tesi iniziale, cioè una presunta collaborazione delle suddette ong con i trafficanti di esseri umani, ma anche che più in generale l’attività delle ong risulta essere in linea con le leggi italiane, nonostante i dubbi sollevati in questi mesi da diversi politici e magistrati italiani.
L’indagine era stata aperta contro ignoti e prevedeva il reato di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina: un’accusa molto grave – da cui la dozzina di ong coinvolte si è sempre difesa – e incentrata in particolare su una operazione di soccorso avvenuta il 15 maggio 2017 al largo delle coste della Libia. In quell’occasione, stando ad alcune testimonianze raccolte dalla procura, un gruppo di “europei” avrebbe tagliato i cavi di avviamento del motore di alcuni barconi con a bordo i migranti, e più tardi avrebbe consentito ad alcuni trafficanti di recuperare i motori in vista di futuri sbarchi. Secondo le informazioni che avevano fatto iniziare l’indagine, qualcuno aveva riconosciuto nel gruppo di europei il personale della Iuventa, una nave di Jugend Rettet, una ong tedesca già al centro di un’inchiesta della procura di Trapani. Le procedure di soccorso erano poi state completate dalla ong spagnola Proactiva Open Arms, a cui qualche mese fa la procura di Catania aveva sequestrato una nave nell’ambito di un’altra inchiesta.
Nelle carte con cui la procura di Palermo chiede l’archiviazione, però, non emerge nessuna prova: né contro Jugend Rettet né contro Proactiva Open Arms che sostenga l’accusa. «In particolare», si legge, «non è emersa la prova che i soggetti che materialmente tranciarono i motori […] con a bordo i migranti facevano parte della ONG Iuventa». Poco più sopra, inoltre, si legge: «alla luce delle indagini svolte, non si ravvisano elementi concreti che portano a ritenere alcuna connessione tra i soggetti intervenuti nel corso delle operazioni di salvataggio a bordo delle navi delle ong e i trafficanti operanti sul territorio libico». Nè Jugend Rettet né Open Arms, insomma, si erano messe d’accordo coi trafficanti di esseri umani.
I magistrati non si sono limitati a smontare l’accusa, ma hanno anche difeso l’attività delle ong: nella seconda parte della richiesta di archiviazione citano infatti diverse leggi che obbligano l’equipaggio di una nave a soccorrere persone che si trovano in difficoltà in mare, e i singoli stati ad accogliere chi fra loro intende fare richiesta di una protezione internazionale.
Fra le informative che avevano avviato l’indagine venivano sollevati anche dei «dubbi» sulle attività di Sea Watch, una ong tedesca attiva ancora oggi nei pressi della Libia, e in particolare sulla sua decisione di portare tutte le persone soccorse in Italia invece che in altri porti più vicini. È una critica che in questi mesi ha trovato sostegno nell’opinione pubblica e nella politica italiane, ma che secondo gli esperti di immigrazione e diritto marittimo non ha fondamento: le ong che soccorrono i migranti seguono la cosiddetta convenzione di Amburgo del 1979 e altre norme sul soccorso marittimo, che prevedono che gli sbarchi di persone soccorse in mare debbano avvenire nel primo “porto sicuro” sia per prossimità geografica sia dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. È per questo che le ong trasportano in Italia, e solo in Italia, tutte le persone che soccorrono nei pressi della Libia: i porti italiani sono semplicemente i più vicini e sicuri.
Nella richiesta di archiviazione i magistrati di Palermo citano proprio la convenzione di Amburgo e sostengono che Sea Watch e tutte le altre ong che si comportano in questo modo stiano semplicemente applicando la legge: «non deve stupire che la «Sea Watch abbia preferito effettuare lo sbarco verso le coste italiane: ciò anzi rappresenta conseguenza logica di quanto appena esposto e una corretta gestione delle operazioni di salvataggio».
I magistrati smontano anche un’altra tesi sostenuta soprattutto dall’ex ministro degli Interni, Marco Minniti, e seguita anche in questi mesi dalle autorità italiane: e cioè che la Libia debba essere responsabile per il pattugliamento delle proprie coste. Il governo italiano e l’Unione Europea hanno sostenuto e finanziato la creazione di una Guardia costiera libica, formata soprattutto da milizie armate, che da mesi intercetta decine di imbarcazioni di migranti e le riporta in Libia.
Il problema è che in seguito alla guerra civile la Libia non ha nessuna area SAR (cioè di salvataggio in mare) riconosciuta delle autorità internazionali, e perciò le sue navi agiscono sostanzialmente in un vuoto legislativo. Secondo i magistrati, «tale circostanza, evidentemente, acquista decisiva rilevanza circa la gestione delle operazioni di salvataggio», nel senso che altri stati come Italia e Malta dovrebbero prendersi la responsabilità delle operazioni al largo della Libia.