I dati sui migranti in Italia, una volta per tutte
Per contestualizzare meglio le discussioni di questi giorni, e districarsi meglio fra "l'Europa ci ha lasciati soli" e "stiamo subendo un'invasione"
di Luca Misculin – @lmisculin
Il caso diplomatico che ha riguardato i 629 migranti soccorsi dalla nave Aquarius ha riacceso il dibattito sull’immigrazione in Italia e in Europa: ne abbiamo approfittato per fare il punto sul flusso degli ultimi anni, e per dare maggiori strumenti per discuterne in questi giorni in maniera informata.
La crisi dell’Aquarius è arrivata in un momento in cui gli sbarchi di migranti in arrivo dal Nord Africa sono al livello minimo da quattro anni a questa parte. Dal 2014 al 2017, infatti, ogni anno sono sbarcati in Italia più di centomila migranti; nei primi cinque mesi del 2018 ne sono arrivati solamente 13mila. Gli analisti attribuiscono il drastico calo agli accordi stretti dal ministro dell’Interno uscente Marco Minniti con le milizie armate in Libia, che nei mesi scorsi si sono impegnate a bloccare le partenze dei barconi, e al rafforzamento della Guardia Costiera libica – cioè sostanzialmente di altri gruppi armati – portato avanti dalle autorità italiane ed europee.
Gli effetti delle politiche sono visibili a partire dall’estate del 2017 e stanno proseguendo anche nei primi mesi del 2018 (a parte un picco di alcune settimane avvenuto a gennaio).
Fra il 2014 e il 2017, cioè nei quattro anni in cui è stato più attivo il flusso dal Nord Africa, sono arrivate via mare in Italia circa 623mila persone. Sono numeri mai sostenuti di recente da nessun paese europeo, esclusa la Grecia (che fra 2015 e 2016 ha accolto un milione di persone arrivate via mare per percorrere la cosiddetta “rotta balcanica”).
Fra il 2014 e il 2015, comunque, pochi dei migranti che arrivavano in Italia via mare si fermavano qui: spesso avevano parenti altrove in Europa oppure si sentivano più a loro agio in un paese dove erano in grado di parlare almeno una lingua, come Francia o Regno Unito. Teoricamente il regolamento di Dublino, il trattato europeo che regola le procedure d’asilo, impone che ciascuna richiesta di protezione internazionale sia gestita dal paese europeo dove ha messo piede per primo il nuovo arrivato. Dal 2016 quasi tutti i paesi europei hanno aumentato i controlli alle proprie frontiere e scaricato l’onere dell’accoglienza su Italia e Grecia; e dato che ogni migrante che arriva fa richiesta di protezione internazionale – altrimenti sarebbe rispedito indietro, per le leggi nazionali – i due paesi si sono trovati a occuparsi di decine di migliaia di persone.
La Grecia sta svuotando piano piano i campi per migranti messi in piedi nel 2015, ma un accordo fra Unione Europea e Turchia nel 2016 ha praticamente azzerato il flusso di nuovi arrivi. Fra 2016 e 2017 l’Italia è stata la principale destinazione per i migranti che arrivavano via mare, che poi hanno grosse difficoltà a spostarsi altrove per via della chiusura delle frontiere. Il risultato è che il sistema italiano di accoglienza sta facendo molta fatica a gestire i migranti arrivati a partire dall’estate del 2016.
La gestione del flusso è stata resa ancora più difficoltosa da problemi nazionali e internazionali. In Italia una domanda di protezione internazionale viene risolta in due-tre anni, durante i quali il richiedente asilo viene ospitato nei centri di vario tipo (a meno che trovi lavoro, ma parliamo di casi molto rari). I centri più diffusi sono i cosiddetti Centri di Accoglienza Straordinaria, detti CAS; vengono aperti in autonomia dalle prefetture, a seconda dell’esigenza del momento, e affidati solitamente a una cooperativa locale che si impegna a occuparsi delle esigenze di base degli ospiti e soprattutto a trovare un posto dove farli dormire. Sono i famosi “alberghi” di cui si parla spesso, i cui proprietari accettano anche solo per arrotondare.
I CAS sono considerati uno strumento efficace per gestire flussi straordinari di persone, ma sono inadatti per un flusso costante di persone, e a lungo termine nessuno ci guadagna davvero. I comuni si ritrovano a fare i conti con una struttura che è stata aperta senza il loro appoggio, e che magari ha scombussolato la vita di un piccolo paese di periferia; i migranti rimangono parcheggiati per mesi o anni – in attesa che venga esaminata la loro richiesta di asilo – in posti che non hanno fra gli obiettivi fare integrazione ma solo fornire loro un tetto e un pasto. I governi di centrosinistra hanno provato a incoraggiare la diffusione degli SPRAR, cioè di centri specializzati nell’integrazione, ma dato che vanno aperti in accordo con le amministrazioni locali, non hanno mai preso molto piede.
Anche il programma studiato nel 2015 dalla Commissione Europea per trasferire alcune categorie di richiedenti asilo da Italia e Grecia verso altri paesi dell’Unione non ha funzionato. Avrebbe dovuto riguardare 160mila richiedenti asilo quasi sicuri di ottenere protezione – e quindi siriani, eritrei e iracheni – ma poiché l’Unione non ha strumenti legislativi per rendere vincolante uno strumento temporaneo di questo tipo, gran parte dei paesi se n’è fregata: in tre anni Ungheria, Slovacchia, Danimarca, Repubblica Ceca e Polonia non hanno accolto nessun richiedente asilo dall’Italia. L’Estonia ne ha accolti 6, la Bulgaria 10, l’Austria 43.
L’altra istituzione europea, il Parlamento, ha provato a risolvere il problema avviando una riforma del Regolamento di Dublino. A novembre del 2017, dopo mesi di lavoro, gli europarlamentari hanno approvato una bozza che avrebbe eliminato il criterio del primo ingresso e introdotto un meccanismo di quote obbligatorio. Diverse organizzazioni internazionali, fra cui Amnesty International, hanno parlato bene della bozza, che però non è stata approvata dai due partiti italiani attualmente al governo, Movimento 5 Stelle e Lega. Il M5S ha votato contro al voto finale durante l’assemblea plenaria, sostenendo che la riforma fosse troppo poco ambiziosa; la Lega si è astenuta.
La bozza è passata al Consiglio dell’UE, cioè l’organo dove vengono rappresentati i governi dei singoli stati, ed è stata sostanzialmente bloccata dai paesi dell’est Europa, che si oppongono a qualsiasi meccanismo di quote (sono paesi molto omogenei dal punto di vista etnico e poco abituati all’integrazione). Fra la sorpresa di molti osservatori, la settimana scorsa il nuovo ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini ha annunciato di voler collaborare proprio con l’Ungheria, che guida il blocco dei paesi che si oppongono a una riforma, per «cambiare le regole di questa Unione Europea».
Il risultato è che negli ultimi anni in Italia sono molto aumentate sia le persone che chiedono una forma di protezione internazionale sia quelle che la ottengono. Alla fine del 2017 le persone che godono di una forma di protezione internazionale sono circa 147mila, mentre quelle ancora in attesa e ospitate nelle strutture di accoglienza possiamo stimarle in circa 180mila (dato tratto da un recente rapporto della Fondazione Migrantes). A questi dobbiamo aggiungere i circa 600mila stranieri che vivono irregolarmente sul territorio italiano; sono persone a cui è scaduto il permesso di soggiorno, o a cui è stata respinta la richiesta di asilo, e che continuano a vivere in Italia.
Sembrano numeri enormi, ma vanno messi in prospettiva. L’Italia ha 60,5 milioni di abitanti, più o meno. Gli stranieri regolari sono poco più di 5 milioni, cioè l’8 per cento. Il dato si abbassa se calcoliamo solo quelli nati fuori dall’Europa: cioè circa 4 milioni, il 6,7 per cento della popolazione totale. Sono numeri molto più contenuti rispetto alla media dell’Europa occidentale, e che suggeriscono una realtà molto diversa da una “invasione”: gli stranieri di origine extra-europea compongono il 9,9 per cento della popolazione austriaca, l’8,5 per cento di quella francese, l’11,6 per cento di quella svedese, e così via.
Tenendo in considerazione i soli richiedenti asilo l’Italia sale di molti posti in classifica, ma non è prima per distacco. Nel 2017 ha ricevuto 126mila richieste di protezione internazionale, un numero quasi esattamente sovrapponibile alle persone sbarcate via mare. Significa che le richieste sono state 2.089 ogni milione di abitanti. Ci sono paesi che in proporzione ne hanno avute molte di più: Malta, accusata in questi giorni di fare poco o nulla per i migranti, nel 2017 ha ricevuto 1.610 richieste di protezione internazionale. Sono molte meno di quelle italiane, ma Malta ha in tutto circa 450.000 abitanti.
Ancora: nel 2017 l’Austria ha ricevuto 22.160 richieste di protezione internazionale, cioè 2.526 ogni milione di abitanti, la Svezia 22.190 – 2.220 ogni milione di abitanti – e la Germania 198mila, cioè 2.402 ogni milione di tedeschi. Negli anni immediatamente precedenti, poi, la Germania aveva ricevuto più di 700.000 richieste di asilo.
Gli ultimi due grafici mostrano bene che l’Italia non sta subendo una invasione, ma che i suoi problemi derivano dal modo in cui è stato gestito il flusso migratorio di questi anni: senza un sistema di accoglienza pronto per gestire queste cifre (si pensi allo squilibrio fra CAS e SPRAR), con un aiuto europeo azzoppato (vedi il fallimento della riforma di Dublino e dei ricollocamenti) e con una popolazione poco abituata all’integrazione e alla convivenza con gli stranieri.